venerdì 29 aprile 2011

COGLIERE IL SEGNO DEI TEMPI

 Il confine alluda a una cesura nel tempo. Una volta varcato, mai nulla potrà essere più come era prima. Proprio per questo in vita è bene che ci siano molti guadi, perché non siamo vivi se non operiamo anche strappi, rotture, salti nel vuoto. Desiderare di sconfinare in un altrove, saper guardare oltre la «siepe, che da tanti orizzonti il guardo esclude», osare far «naufragare» lo sguardo nell’infinito e nello sconosciuto, può certo includere il rischio di uno smarrimento, di una perdita. Ma rimanere al di qua, non affacciarsi mai all’aperto lo si può fare solo se si sceglie di rimanere chiusi dentro la prigione del tempo: sempre uguali a noi stessi, immobili, a fissarci come in uno specchio. Il presente, per essere vissuto pienamente, si deve nutrire anche di separazioni, di attese. Il respiro del tempo deve rimanere in ciò che è stato e muovere verso ciò che verrà per dare alimento a ciò che accade nell’istante. Per questo, se vogliamo cogliere il segno dei tempi, dobbiamo saper sviluppare una mobilità mentale capace di comprendere che la storia non ha gli stessi tempi ovunque: ciò che a noi pare, in questo momento, inaccettabile, era consuetudine indiscussa pochi decenni o pochi anni fa. Ma per chi abita un po’ più lontano da noi, quel tempo può non essere trascorso. Ciò che a noi è diventato imprescindibile, per altri può essere ancora oggetto di conquista. È da creature misere, incapaci di sguardo, ergerci a giudici di comportamenti altrui che fino a poco fa erano anche nostri.

(Gabriella Caramore, La fatica della luce. Confini del religioso. Morcelliana, Brescia, 2008, p. 20)