domenica 2 agosto 2015

Sangue e dolore: il Tibet non è solo un’oasi mistica


​                        David Gray/Reuters
I saggi capaci di erodere gli stereotipi sono sempre i benvenuti: e dunque benvenuto è il lavoro di Chiara Bellini sul Tibet, Nel paese delle nevi. L'intento, dichiarato fin dalle prime righe, è di restituire l'immagine autentica di un paese quasi sempre raccontato come luogo mistico e trascendente. Ma la storia tibetana è intessuta di sangue e dolore come la storia di ogni altro paese: per molti versi quanto sappiamo di esso attraverso la cronaca è solo la punta di un iceberg, quando non una mera falsificazione. (Per dirne una: le cosiddette «campane tibetane» usate nei rituali sono in realtà ciotole nepalesi spacciate per strumenti di meditazione).
La civiltà del Tibet emerge nel VII secolo dopo un periodo di lotte, quando alcuni principi decidono di eleggere come re il capotribù della Valle dello Yarlung. Questa figura si colora subito di una tonalità religiosa: nei miti il sovrano discende dal cielo tramite una fune, ed è «portato in spalla» da dodici saggi. Songsten Gampo, il più famoso tra i re di quest'epoca, estende e consolida il proprio dominio sfiorando le frontiere cinesi - il primo atto di un rapporto lungo e spesso conflittuale.
Contrariamente all'immagine pacificata che ne abbiamo oggi, il Tibet dei due secoli successivi si impone come una potenza militare a capo di un regno vasto e concentrato in una zona di interesse strategico. L'evento cruciale di questo periodo è l'imposizione del buddhismo come religione di stato da parte di Tri Songdetsen nel 755, volta anche a rafforzare il potere del sovrano nei confronti dell'oligarchia aristocratica. Sorgono di conseguenza i primi monasteri e templi che nei secoli renderanno celebre quel paesaggio.
E uno degli aspetti più apprezzabili del saggio di Bellini è proprio l'attenzione dedicata all'elemento religioso. Nei secoli il buddhismo tibetano è divenuto una corrente di grande raffinatezza: ma è anche la chiave per aprire il mondo sociale e politico del paese. Innanzitutto per la sovrapposizione quasi immediata fra stato e religione: dove la seconda fornisce al primo una tavola di leggi adatte al popolo come al sovrano. Ma è nel periodo di instabilità dopo la pace con la Cina (821) che il buddismo conosce una nuova e più radicale diffusione. Nascono le prime vere e proprie scuole di pensiero religioso, che in breve tempo acquistano anche un forte potere temporale.
Dal XIII al XIV secolo il governo del paese si configura come una sorta di protettorato dei mongoli: il lama più influente diviene consigliere dell'imperatore, che a sua volta se ne fa garante. Il che non evita comunque una sanguinosa guerra interna tra due fazioni per affermare i reciproci sostenitori; né, dopo una serie di intrighi e cospirazioni degni delle peggiori corti europee, la fine della dominazione straniera a seguito del crollo della dinastia Yuan. Servirà ancora molto tempo per giungere all'affermazione di un nuovo potere centrale.
Solo nel 1578 il maestro Sonam Gyatso della scuola Gelupka viene infatti nominato «Dalai Lama» dal sovrano Altan Khan. (Dalai sta per «oceano»: insondabile ed enorme come la sua saggezza). Nasce cosi, in epoca relativamente tarda, una forma di teocrazia che sopravvive ancora oggi. Messa a punto dal «Grande Quinto» Lozang Gyatso, essa prevede ancora una volta un rapporto di protettorato sulla base di un potere spirituale. E' inoltre Lozang a dare il via alla creazione del celebre Palazzo del Potala.
Con il passare del tempo la leadership si centralizza sempre di più, fino alla crisi del XIX secolo, quando i Dalai Lama - anche a causa di morti precoci forse a causa di avvelenamenti e rivalità - si rivelano incapaci di fornire una guida al paese. L'aggravarsi delle tensioni nazionali fa sì che la breve indipendenza ottenuta dopo la prima guerra mondiale si concluda con l'invasione cinese e il conseguente esilio dell'attuale Dalai Lama, che dura dal 1959. Particolarmente feroci sono gli anni della Rivoluzione culturale, in cui il Tibet è oggetto di violenze allo scopo di cancellarne l'impronta religiosa; ma invano. Ancora oggi - e le tragiche autoimmolazioni dei giovani lo testimoniano - il Paese delle Nevi continua a lottare per affermare la propria identità e sottrarsi al giogo cinese. A tal riguardo sono molto interessanti, in chiusura di saggio, i capitoli dedicati all'arte contemporanea tibetana: insofferente ancora una volta alla sua semplificazione occidentale, ma allo stesso tempo figlia di una lunga tradizione spirituale.
Nel complesso, Bellini offre un libro ideale per chi desidera avvicinarsi alla storia e ai costumi del paese senza quella «ingordigia di misticismo a buon mercato» tipica dell'Occidente, che ha il solo effetto di «musealizzare quella cultura che non ha mai smesso di pulsare». E che in queste pagine pulsa con passione.

Giorgio Fontana, Scrittore. Ha vinto l'ultimo Campiello con «Morte di un uomo felice».

(La Stampa 25 luglio)