lunedì 1 gennaio 2018

Il dolore di Casale "Qui l'amianto uccide ancora"

CASALE MONFERRATO. Come tutte le volte che arriva una notizia buona, o una cattiva, si va al parco Eternot, che è un gioco di parole che sta per No Eternit, ed è un gioco che non vuole far ridere.
Costruito dove c'era lo stabilimento, poi abbattuto. Se proprio ci si deve arrabbiare, almeno lo si fa in un posto dove l'amianto è stato davvero sconfitto: sepolto in un sarcofago di cemento, sopra ci sono prati e alberi, ci si può anche camminare. Qui Giuliana Busto racconta di suo fratello: «Trent'anni fa Pier Carlo, che aveva 33 anni e lavorava in banca, si ammalò. A Casale non capivano, lo portammo a Pavia. Lì il professor Moncalvo, saputo che eravamo di Casale e prima ancora di guardare le lastre, disse che era un mesotelioma. Nessuno di noi conosceva la parola» . Pier Carlo morì cinque mesi più tardi, lasciando una vedova e un'orfana di due anni. «Prima pensavamo che l'amianto riguardasse solo gli operai della fabbrica, invece il problema era di tutta una città», dice Giuliana, che ora è presidente dell'Associazione famigliari vittime dell'amianto.
E questa è una città dove di sicuro non mancano il coraggio, e la forza di volontà. «Non si molla, ah no. Questa storia è unica al mondo e non finisce qua, neanche davanti alla Cassazione. Quando c'è un'ingiustizia in corso, ci volessero dieci giorni o mille anni, si va avanti».
Lo dice anche Bruno Pesce, uno dei coordinatori. Non un passo indietro, i processi si faranno eccome. Altrimenti sarebbe tutto inutile, così tanti morti, e la moria non è ancora finita: «Ne muore uno alla settimana, più mesotelioma che tumore ai polmoni o asbestosi, ormai. La casistica adesso è di una cinquantina di decessi l'anno, fanno circa uno alla settimana».
Così, davanti ai manifesti funebri, la gente si interroga sulla malattia specifica, più che per la causa.
«Si chiama esposizione ambientale: per ammalarsi non era necessario essere un lavoratore Eternit. Bastava essere la moglie di un operaio, che tornava con i vestiti e i capelli pieni di amianto, e lo spargeva per casa» , spiega Pesce. Così ci sono stati i casi delle donne che lavavano con scrupolo le tute dei mariti, inalando le fibre. E anche Pier Carlo Busto, che «andava a correre e si allenava qui, sulla riva del Po, a fianco della fabbrica» , racconta la sorella. Qui aspirava a pieni polmoni quello che poi l'ha ucciso, quando ancora «non sapevamo niente». Poi, tutta una città è diventata esperta di cancri e di agonie, di inchieste e processi, di procedura penale, anche.
Pier Eusebio Cazzolino, 81 anni e l'asbestosi. Giuliana Busto scherza, ma se lo può permettere: «Devi riguardarti, sei uno degli ultimi operai vivi» . Lui lavorava nel reparto modelli, «facevamo camini, curve, braghe, anche vasi da fiori, scolpiti a clessidra. Belli, peccato che erano di amianto» .
C'erano «quei fogli maneggevoli, tipo la pasta per fare gli agnolotti». Aggiunge che «oggi è una bella giornata perché sto abbastanza bene. Per il resto, brutte notizie da Roma».
Cosa dice il sindaco? Titti Palazzetti è via, ma dichiara che «bisogna aspettare le motivazioni. E sperare che la procura di Vercelli velocizzi il processo». Al parco Eternot c'è l'assessora Daria Carmi, Cultura: «Noi temiamo che ci sia una qualche strategia per arrivare a un'altra prescrizione. A pensar male non si fa peccato» .
Pesce: «Secondo noi già la decisione del gip era discutibile… Come fanno a dire che è un omicidio colposo invece che doloso, prima ancora di cominciare il dibattimento? È una questione di democrazia» .
Altrimenti «la prossima volta il processo si faccia direttamente in Cassazione, in camera di consiglio». Ma è una provocazione, e prima di lasciare il parco, visto che fa buio e freddo, e il signor Cazzolino non è proprio in forze, vanno registrate almeno due frasi. Una: «I fazzoletti intrisi delle nostre lacrime metteranno le ali e voleranno lontane per sviluppare profonde radici di giustizia», che è il motto del parco. Due (la dice Giuliana Busto): «Mia nipote non ha neanche un ricordo di suo padre. Le avevamo fatto le gigantografie in camera, ma niente. Neanche un ricordo».
Brunella Giovara

 (la Repubblica 16 dicembre)