Prevale
giustamente nel dialogo ecumenico l’impegno per la pace e per la
giustizia nel mondo. Giustamente, lo sottolineo, si dà grande rilievo
alle buone maniere, alle preghiere comuni, alle pratiche della corretta
vicinanza. Tutte pratiche preziose che oggi, essendo le nostre
tradizioni tutte minoritarie, diventano anche necessarie per la stessa
sopravvivenza e visibilità pubblica delle diverse chiese.
Ma
tu puoi scrivere di tutto sulla pace e sulla giustizia, sull’ecologia e
sulla scelta dei poveri, purché non ti inoltri sui punti nodali della
struttura. La cristologia è il “nodo” più “sensibile”. Se scrivi che
Gesù è il Dio incarnato, il Dio fatto uomo, nato dalla vergine Maria e
riconosci il dogma della Trinità… vai tranquillo… e nessuno ti mette
sotto processo… I tuoi libri hanno libero accesso ovunque. Ma questa
perimetrazione della ricerca e questa linea di confine portano con sé un
appiattimento, una resa al dovere di obbedire, un atteggiamento
reverenziale verso i “custodi dell’ortodossia”, una sistemazione
all’interno del perimetro della “verità certificata”.
Ambedue le uscite sono necessarie
Una chiesa in uscita che non esca anche dai suoi dogmi, non si ferma forse a metà strada?
L’Esodo teologico-dogmatico è non meno importante dell’uscita dai palazzi del potere.
I
dogmi, i riti secolari, le devozioni sono diventati statuari,
indiscussi, la realtà intoccabile, il fondamento eterno. Si tratta di un
vero “tesoro di verità” di cui la chiesa gerarchica è garante e
custode. Tutto è ben chiaro: prendere o lasciare. Non si dà una terza
possibilità.
In questo solco si è radicata una diffusa e patologica ossessione della verità e della dottrina.
Certe
“verità” sono diventate la casa interiore di molti credenti che, privi
di ogni consapevole riferimento ai testi biblici, ne hanno fatto
l’equivalente della loro fede.
Ma molte case diventano prigioni.
Si
può continuare a recitare un credo e altre formule, diventate centrali
nella catechesi e nella liturgia, quando esse non reggono più, non sono
più compatibili con le nuove acquisizioni degli studi biblici, non sono
più in grado di parlare, di trasmettere un messaggio a chi le legge o le
recita oggi?
Il peggio che ci può succedere
Ma
c’è di peggio. Quando una comunità viene indotta a ripetere linguaggi
morti, perde l’esperienza più tonificante della fede, cioè la ricerca
del senso e dei significati. Le parole, i riti, i simboli sono luoghi
epifanici, ponti verso il mistero, condensati di memoria che cercano di
testimoniare e dire oggi il cuore della nostra fede.
C’è
ancora dell’altro. Penso che abbiamo un dovere, una responsabilità
verso gli uomini e le donne di oggi: rispettare e amare il linguaggio
con cui parlano e parliamo in questo tempo. Un Dio che non possa essere
espresso e cercato nei linguaggi e con l’immaginario contemporaneo, è
destinato ad occupare un posto onorato nello scaffale delle biblioteche, ma noi
adoriamo il Dio Vivente che è “eterno” e assolutamente contemporaneo.
Una chiesa della fiducia
Una
chiesa-comunità, che abbia fiducia nelle donne e negli uomini che la
compongono e la “costruiscono”, non dubita della loro intelligenza,
offre stimoli al rinnovamento: anzi sa far gustare la gioia di sentirsi
insieme partecipi del laboratorio del futuro.
Non
è necessario espellere, umiliare o accantonare altre sensibilità, ma
praticare una progressiva e audace immissione di proteine bibliche e di
conoscenze storiche nel circuito comunitario.
Ma
non sarà che manchi una vera, solida cultura biblica e che non
sovrabbondi il coraggio di entrare nel vivo delle questioni centrali che
sono sul tappeto rispetto alla conversione personale, ecclesiale,
liturgica e pastorale?
Franco Barbero