domenica 23 settembre 2018

QUANDO LE "URGENZE" SPENGONO LA RICERCA


Prevale giustamente nel dialogo ecumenico l’impegno per la pace e per la giustizia nel mondo. Giustamente, lo sottolineo, si dà grande rilievo alle buone maniere, alle preghiere comuni, alle pratiche della corretta vicinanza. Tutte pratiche preziose che oggi, essendo le nostre tradizioni tutte minoritarie, diventano anche necessarie per la stessa sopravvivenza e visibilità pubblica delle diverse chiese.
Ma tu puoi scrivere di tutto sulla pace e sulla giustizia, sull’ecologia e sulla scelta dei poveri, purché non ti inoltri sui punti nodali della struttura. La cristologia è il “nodo” più “sensibile”. Se scrivi che Gesù è il Dio incarnato, il Dio fatto uomo, nato dalla vergine Maria e riconosci il dogma della Trinità… vai tranquillo… e nessuno ti mette sotto processo… I tuoi libri hanno libero accesso ovunque. Ma questa perimetrazione della ricerca e questa linea di confine portano con sé un appiattimento, una resa al dovere di obbedire, un atteggiamento reverenziale verso i “custodi dell’ortodossia”, una sistemazione all’interno del perimetro della “verità certificata”.
Ambedue le uscite sono necessarie
Una chiesa in uscita che non esca anche dai suoi dogmi, non si ferma forse a metà strada? 
L’Esodo teologico-dogmatico è non meno importante dell’uscita dai palazzi del potere. 
I dogmi, i riti secolari, le devozioni sono diventati statuari, indiscussi, la realtà intoccabile, il fondamento eterno. Si tratta di un vero “tesoro di verità” di cui la chiesa gerarchica è garante e custode. Tutto è ben chiaro: prendere o lasciare. Non si dà una terza possibilità. 
In questo solco si è radicata una diffusa e patologica ossessione della verità e della dottrina.
Certe “verità” sono diventate la casa interiore di molti credenti che, privi di ogni consapevole riferimento ai testi biblici, ne hanno fatto l’equivalente della loro fede.
Ma molte case diventano prigioni.
Si può continuare a recitare un credo e altre formule, diventate centrali nella catechesi e nella liturgia, quando esse non reggono più, non sono più compatibili con le nuove acquisizioni degli studi biblici, non sono più in grado di parlare, di trasmettere un messaggio a chi le legge o le recita oggi?
Il peggio che ci può succedere
Ma c’è di peggio. Quando una comunità viene indotta a ripetere linguaggi morti, perde l’esperienza più tonificante della fede, cioè la ricerca del senso e dei significati. Le parole, i riti, i simboli sono luoghi epifanici, ponti verso il mistero, condensati di memoria che cercano di testimoniare e dire oggi il cuore della nostra fede.
C’è ancora dell’altro. Penso che abbiamo un dovere, una responsabilità verso gli uomini e le donne di oggi: rispettare e amare il linguaggio con cui parlano e parliamo in questo tempo. Un Dio che non possa essere espresso e cercato nei linguaggi e con l’immaginario contemporaneo, è destinato ad occupare un posto onorato nello scaffale delle biblioteche, ma noi adoriamo il Dio Vivente che è “eterno” e assolutamente contemporaneo.
Una chiesa della fiducia
Una chiesa-comunità, che abbia fiducia nelle donne e negli uomini che la compongono e la “costruiscono”, non dubita della loro intelligenza, offre stimoli al rinnovamento: anzi sa far gustare la gioia di sentirsi insieme partecipi del laboratorio del futuro.
Non è necessario espellere, umiliare o accantonare altre sensibilità, ma praticare una progressiva e audace immissione di proteine bibliche e di conoscenze storiche nel circuito comunitario.
Ma non sarà che manchi una vera, solida cultura biblica e che non sovrabbondi il coraggio di entrare nel vivo delle questioni centrali che sono sul tappeto rispetto alla conversione personale, ecclesiale, liturgica e pastorale?
Franco Barbero