D’ALTRA
PARTE nemmeno il popolo è più quello di una volta: il popolo dei
populismi classici, unità morale portatrice di virtù collettive,
unito a coorte e pronto alla morte. E’ al contrario una
disseminazione irrelata di individualità. L’ha mostrato
perfettamente la ricerca su “Chi è il popolo” realizzata da un
gruppo di giovani ricercatori nelle nostre periferie e presentata
sabato scorso a Firenze: il tratto comune a tutte le interviste era
l’assenza di denominatori comuni. La perdita del senso condiviso
della condizione e dell’azione. La scomparsa dall’orizzonte
esistenziale del conflitto collettivo, in un quadro in cui l’unica
potenza sociale riconosciuta, l’unico titolare del comando, è il
denaro, inattingibile nella sua astrattezza e quindi incontrastabile.
SE
UN NOME vogliamo dargli, è “moltitudine”, non tanto nel senso
post-operaista del termine, come nuova soggettività antagonistica,
ma in senso post-moderno e post-industriale: l’antica “classe”
senza più forma né coscienza. Decostruzione di tutte le
aggregazioni precedenti. In qualche misura “gente”… Cosicché
anche i populismi che si aggirano, nuovi spettri, per il mondo sono
populismi anomali: populismi senza popolo.
Per
questo è bene rimetterci in gioco “in basso”. Nella materialità
della vita comune. Corpi tra corpi. A imparare il nuovo linguaggio di
un’esperienza postuma. Lasciando da parte, almeno per il momento,
ogni velleità di rappresentanza che non riuscirebbe a essere.