sabato 20 ottobre 2018

QUANDO SI DICE IL "POPOLO"


D’ALTRA PARTE nemmeno il popolo è più quello di una volta: il popolo dei populismi classici, unità morale portatrice di virtù collettive, unito a coorte e pronto alla morte. E’ al contrario una disseminazione irrelata di individualità. L’ha mostrato perfettamente la ricerca su “Chi è il popolo” realizzata da un gruppo di giovani ricercatori nelle nostre periferie e presentata sabato scorso a Firenze: il tratto comune a tutte le interviste era l’assenza di denominatori comuni. La perdita del senso condiviso della condizione e dell’azione. La scomparsa dall’orizzonte esistenziale del conflitto collettivo, in un quadro in cui l’unica potenza sociale riconosciuta, l’unico titolare del comando, è il denaro, inattingibile nella sua astrattezza e quindi incontrastabile.

SE UN NOME vogliamo dargli, è “moltitudine”, non tanto nel senso post-operaista del termine, come nuova soggettività antagonistica, ma in senso post-moderno e post-industriale: l’antica “classe” senza più forma né coscienza. Decostruzione di tutte le aggregazioni precedenti. In qualche misura “gente”… Cosicché anche i populismi che si aggirano, nuovi spettri, per il mondo sono populismi anomali: populismi senza popolo.
Per questo è bene rimetterci in gioco “in basso”. Nella materialità della vita comune. Corpi tra corpi. A imparare il nuovo linguaggio di un’esperienza postuma. Lasciando da parte, almeno per il momento, ogni velleità di rappresentanza che non riuscirebbe a essere.

Marco Revelli (Il Manifesto 23 maggio 2018)