sabato 23 febbraio 2019

Cannabis, corsa all'oro verde
Big Pharma, Big Tobacco e Big Food
chi punta sul boom della marijuana
Startup create da tycoon della Silicon Valley vedono esplodere le loro quotazioni a Wall Street, i giganti dell’industria del tabacco, delle bevande e dei farmaci fiutano il business dei nuovi consumi di marijuana.
Gli Usa primo mercato, il Canada primo produttore: a Wall Street la Canopy Corp già capitalizza più di Bombardier. Dietro alle startup ci sono i tycoon della Silicon Valley e ora cresce l'interesse di Coca Cola, Altria e Heineken. Cosa accade in Europa.

ROMA. A Denver, Michael Eymer è diventato una specie di celebrità quando, nella notte di capodanno del 2018, la Cnn ha deciso di trasmettere live uno dei suoi affollatissimi tour in autobus. Il Colorado Cannabis Tour è un servizio che è stato lanciato nel 2014 e che ogni anno porta in giro per lo Stato circa 5 mila persone. Turisti un po’ speciali: appassionati e cultori della marijuana. Eymer, che nel 2016 ha fatturato più di un milione di dollari con la sua società, ha intuito prima di altri le potenzialità di un business su cui ora stanno mettendo gli occhi anche le grandi multinazionali del tabacco, dell’alcool, le grandi case farmaceutiche: il commercio globale della marijuana legale.
I numeri dell’ultimo rapporto Arcview Market Research e Bds Analytics spiegano il perché: nel 2018, la spesa globale in cannabis legale ha superato i 12 miliardi di dollari, nel 2017 era stata di 9,5 miliardi, e nel 2022 potrebbe toccare i 31 miliardi di dollari, una crescita media del 27%. Nel giro di poco tempo decine di Paesi hanno legalizzato la cannabis terapeutica, che ha dosi limitate di thc e cannabidiolo, e la grande corsa all’oro verde è cominciata.

COME NEGLI ANNI '30
«La normativa sulla cannabis nel mondo si è evoluta più negli ultimi cinque armi che nei tre decenni precedenti», spiega alla rivista francese Challange Ivana Obradovic, direttrice dell’Osservatorio francese sulle droghe. E c’è chi vede in questa accelerazione qualcosa di simile a quello che accadde nella seconda metà degli anni Trenta: la fine del proibizionismo e la nascita, nel giro di un paio di decenni, dell’industria globale degli alcolici.
Negli Stati Uniti, che ne sono il primo consumatore al mondo, la marijuana medica è legale in 33 Stati, in 10 si può comprare anche per uso ricreativo, ovunque spuntano serre per la coltivazione e quelli che gli americani chiamano i pot shops, i negozi dell’erba. In Colorado, che nel 2014 fu il primo stato a consentire l’uso anche ricreativo della marija, nel 2017 il giro d’affari ha superato il miliardo e mezzo di dollari, lo 0,55% del Pil, i pot shops ormai sono più degli Starbucks e dei McDonald’s, l’indotto occupa 50 mila persone e il governo incassa più di 200 milioni di tasse all’anno.

IN CANADA LA MARIJA VALLEY

Ma è nel Canada del liberale Justin Trudeau che la cannabis sta attirando l’attenzione di multinazionali e fondi di investimento, alimentando la nascita di decine di startup e anche una certa volatilità sui titoli delle aziende del settore. Quando nel 2013 ha fondato la Canopy Corporation in Ontario, amici e familiari gli dicevano di lasciar perdere: è un mercato troppo esposto alle incertezze delle policy pubbliche. Ma Bruce Linton, che veniva dal mondo dell’high tech e aveva attraversato l’euforia e la bolla delle dot.com, non si è dato per vinto. Oggi la Canopy è tra i più grandi produttori di marijuana al mondo, il primo a quotarsi alla Borsa di New York, e ha una capitalizzazione di mercato che supera i 10 miliardi di dollari: più della connazionale Bombardier, per dire, il colosso internazionale di aerei e treni, sebbene i ricavi dalle vendite di cannabis terapeutica della controllata Tweed, nel 2017, non abbiano raggiunto gli 80 milioni di dollari. A chi gli chiede quale sia il suo obiettivo, Linton risponde con ambizione: fare della Canopy l’“Amazon o il Google?” della marijuana. Sei mesi fa, il mercato ha dato qualche ragione in più al suo ottimismo: Constellation Brand, l’azienda che produce tra le altre la birra Corona, ha investito 3,8 miliardi di dollari nella Canopy, una mossa che risponde ai passi fatti da altre società del settore, alcolici, come la Heineken e la Coca Cola - la prima ha lanciato una bevanda a base di cannabidiolo, la seconda ha allo studio un prodotto simile - o la Anheuser-Busch, produttore della birra Budweiser, che ha chiuso un accordo da 50 milioni con la Tilroy per il lancio di una bevanda a base di cannabidiolo.

LE MAGIC FOUR

Tilroy è l’altro nome grosso della cannabis canadese, una del quartetto dei grandi, le magic four, come le ha ribattezzate la stampa nordamericana, insieme con Aurora, Canopy e Cronos. Il principale finanziatore di Tilroy e Peter Thiel, uno degli uomini più potenti della Silicon Valley, fondatore di Pay Pal e grande sostenitore di Donald Trump. Privateer Holdings, il suo fondo di private equity, possiede l’80% di Tilroy che è quotata alla borsa di New York e alla fine dello scorso anno ha ottenuto la licenza per esportare anche sul mercato tedesco e australiano. L’altro big dell’industria canadese e Cronos Group, su cui ha puntato la multinazionale del tabacco Altria, quella delle Marlboro, acquistandone il 45% per 1,8 miliardi di euro. E infine c’è Aurora cannabis, che sul mercato vale circa 5 miliardi di dollari, opera in 22 Paesi ed è stata la prima società, all’inizio del 2018, a vincere un appalto per la fornitura di cannabis medica all’Italia attraverso la controllata Pedanios.

L’EUROPA, TERRA DI CONQUISTA
Già, L'Europa. Il vecchio continente è un mercato molto promettente per chi produce cannabis medica, nel 2028 potrebbe arrivare a 58 miliardi di euro, secondo le stime di Prohibition Partners. «Alla fine del 2018 c'erano 18 Paesi in Europa che avevano legalizzato la marijuana medica, entro la fine del 2019 prevediamo che saranno tra i 22 e i 25», ci spiega Stephen Murphy, co-fondatore della società di analisi. Germania, Paesi Bassi e Italia sono i mercati potenziali più ampi, con una previsione di oltre 220 mila pazienti nel 2019. Solo in Germania, che ha legalizzato la marijuana terapeutica nel 2017, i pazienti sono già più di 40mila. Da dove arriva tutta la cannabis che gli europei usano per curarsi? In Gran parte dal Canada, dice Murphy, “ma altri Paesi si tanno inserendo nel business, come l’Australia o Israele”. Il rischio per 1’Europa e ritagliarsi un ruolo solo da importatore in un mercato dominato da poche grandi multinazionali. Ragiona Murphy: «Con il tempo ci saranno acquisizioni e consolidamenti perché l’industria sta crescendo molto rapidamente, ma si apriranno molte altre opportunità di business: l’industria della cannabis interessa diversi settori, dalle costruzioni al food and beverage, all’industria tech, e accanto a grandi aziende nasceranno anche numerose startup”.

LA SFIDA DELL’ERBA A ORIENTE
I governi intanto si posizionano. La scorsa settimana, mentre Israele dava il via libera alle esportazioni di cannabis terapeutica, la Thailandia ha bloccato tutte le domande di brevetto per la marijuana medica. La giunta militare di Bangkok teme che le compagnie farmaceutiche straniere possano tentare di monopolizzare il mercato. Colossi come la britannica GW Pharmaceuticals o la giapponese Otsuka Pharmaceutical, già presenti sul mercato nordamericano ed europeo, avevano già depositato brevetti per produrre marijuana. La guerra è appena cominciata.
Gabriella Colarusso
Focus

I PARADOSSI DEL COLORADO


Cinque anni di Colorado Cannabis Tour, gli eventi promozionali del consumo di cannabis lanciati nel 2014 da Michael Eymer, hanno prodotto il tipico risultato di ogni campagna di marketing ben congegnata e con un prodotto che evidentemente incontra la domanda del mercato: ogni anno 5 mila persone vi prendono parte, con una quota crescente di turisti della marijuana che affollano le prenotazioni e confluiscono su Denver, la capitale dello Stato, che nel 2017 ha ricavato da questo turismo lo 0.55% del suo pil, per un valore di l,5 miliardi di dollari. Non a caso in Colorado i pot shop, dove si può acquistare la cannabis, sono superiori per numero agli Starbucks e ai McDonalds’s.


Il commento
LIBERALIZZAZIONE. OCCHIO AL CONTO DEI COSTI NASCOSTI


Vista dal lato del business, la liberalizzazione della cannabis è un “no brainer”. Una sostanza che crea dipendenza e che non genera conseguenze fisiche pericolose nell’immediatezza di un consumo moderato è il sacro graal di qualunque dipartimento commerciale: le spese di marketing si possono limitare ad un “fuma moderatamente” e, una volta scaricato sul consumatore l’onere di auto-limitarsi, la merce si vende da sola. Vista dal lato del “pubblico” e quindi di chi dovrebbe avere a cuore l’interesse collettivo, la situazione è più complicata.
L’uso non terapeutico ma ricreazionale di sostanze stupefacenti, le cosiddette “droghe”, solleva infatti interrogativi profondi sul rapporto tra libertà individuale e vincoli imposti dall’interesse collettivo, sulla impostazione della regolamentazione a protezione del consumatore e sul ruolo delle istituzioni. Per risolvere tali interrogativi, molto spesso si segue la scorciatoia economicistica del misurare i benefici immediati per le casse dello Stato: maggiori introiti da IVA e accise sul consumo, minori spese per l’azione di contrasto delle forze di Polizia e recupero all’economia perbene di strati di popolazione destinate viceversa ad entrare nel giro delle patrie galere. Ma quasi sempre queste analisi costi-benefici sono svolte in un contesto statico. Si svolgono cioè ipotizzando un “mercato” ed un “prodotto” invariabili rispetto alla decisione di legalizzare. E, quindi ad esempio, spese sanitarie identiche prima e dopo la liberalizzazione perché la base dei consumatori e la sostanza consumata sono ipotizzate identiche. La qual cosa può aver senso su un orizzonte temporale molto breve. Ma perde di ogni significato allungando lo sguardo oltre il tipico ciclo elettorale.
È infatti noto che la liberalizzazione di una sostanza porta ad un aumento del consumo e dell’intensità dello stesso, grazie ai prezzi più bassi, all’eliminazione dello stigma sociale e a tecniche di produzione e di commercializzazione più evolute di quelle che possono mettere in atto gli spacciatori da strada. I prezzi si abbassano e i consumi aumentano non solo per effetto della eliminazione del premio al rischio insito in ogni attività “criminale”, ma anche e soprattutto per la discesa in campo dell’industria, della tecnologia e del marketing. Sono bastati d’altro canto vent’anni di innovazione illegale nelle tecniche di coltivazione e lavorazione per triplicare il contenuto medio di THC (il principio psicoattivo) rilevato nella marijuana sequestrata dalla polizia americana.
Vista la quantità di variabili in gioco in un contesto dinamico, l’impatto a lungo termine è molto più difficile da quantificare rispetto a quello a breve. Ma è potenzialmente enorme se usiamo come termini di confronto il costo per il sistema sanitario delle malattie causate dall’uso del tabacco. Nel caso della cannabis ai danni da “fumo” bisognerebbe inoltre aggiungere i danni neurologici a lungo termine, il costo sociale della riduzione delle capacità cognitive in chi ne abusa in età adolescenziale e gli incidenti causati da stordimento o da comportamenti paranoici indotti su soggetti predisposti, come documentato dalla cronaca oltre che dalla letteratura clinica in argomento. I legislatori di un tempo, nonostante una cultura della protezione del consumatore e della tutela della salute pubblica ancora embrionale, avrebbero consentito la liberalizzazione del tabacco se fossero stati a conoscenza degli effetti negativi sulla salute? Difficile fornire una risposta, ma se i legislatori di oggi, nella loro scelta, volessero un aiuto anche dalla scienza economica, non dovrebbero ridurre l’analisi costi-benefici a quante tasse in più si potrebbero incassare il prossimo anno. Dovrebbero invece interrogarsi su quali saranno i costi che trasferiranno alle prossime generazioni, cercando di non ripetere lo stesso errore di valutazione che fu commesso con la liberalizzazione selvaggia del gioco d’azzardo quasi venti anni fa.
Marcello Esposito

L’analisi
L’erba made in Italy occupa 4mila ettari crescono negozi e startup
Un 2018 vissuto come una grande corsa con oltre mille punti vendita di cannabis light spuntati come funghi ovunque iniziando ad attirare anche l’attenzione dei grandi gruppi stranieri. Ma c’è il problema delle regole.

I numeri
300 ETTARI
La superficie coltivata a cannabis in Italia nel 2013. Nel 2018 si è più che decuplicata: 4 mila ettari
64 TIPOLOGIE
Sono le specie di cannabis autorizzate dall’Ue con contenuto psicotropo controllato

150 CHILOGRAMMI

È la produzione annua di cannabis per uso terapeutico dell’unico soggetto italiano autorizzato, lo stabilimento chimico farmaceutico di Firenze, ma il fabbisogno degli ospedali per gli usi autorizzati nelle terapie ne richiede più di 10 volte tanta. II resto viene quindi importato.

MILANO. La cannabis made in Italy - dopo il boom del 2018 - prova a mettere la testa (e le regole) a posto per non mandare in fumo la speranza di un futuro dorato. Che gli ultimi 12 mesi siano stati indimenticabili per il settore lo dicono i numeri: «In Italia sono stati aperti oltre mille negozi di canapa light», calcola Riccardo Ricci, fondatore di Cbweed e numero uno della neonata Aical una sorta di mini-Confindustria del comparto. Punti vendita liquidati dal vice-premier Matteo Salvini come “bordelli cinesi", riusciti però a mettere assieme un giro d’affari di una quarantina di milioni «destinato a raddoppiare quest’anno», assicura Ricci.

GLI AGRICOLTORI SI SONO BUTTATI
Gli agricoltori - alle prese con i capricci del prezzo del grano e dell’ortofrutta- hanno fiutato l‘affare e si sono buttati a pesce nell'avventura: in cinque anni la superficie dello Stivale coltivata con le 64 specie di canapa autorizzate dall’Unione Europea - quelle che danno piante e fiori con contenuto del principio psicotropo The sotto lo 0,2% (contro il 15-25% della “cugina terapeutica”) – si è più che decuplicata da 300 a 4mila ettari. E la filiera cresce a vista d’occhio, come dimostra l’ultima edizione della fiera CanapaExpo dove gli espositori sono stati il doppio dell’anno precedente.
Il mercato, insomma, c’è e promette moltissimo. A tarpargli le ali ridimensionando (per ora) i suoi sogni di grandezza è però, in Italia come in tutto il mondo, «un quadro di regole molto incerto», spiega Stefano Masini, responsabile ambiente di Coldiretti, in cui si fatica a trovare una sintesi chiara di cosa è consentito e cosa no. Specie ora che al governo ci sono due forze politiche (Lega e M5s) che sul tema dalle cannabis sembrano avere approcci molto differenti. Le certezze sono poche: la produzione di cannabis tradizionale ad uso terapeutico è affidata solo e in esclusiva allo Stabilimento chimico farmaceutico di Firenze che dovrebbe arrivare a raccoglierne quest’anno circa 150 kg, più o meno un decimo del fabbisogno reale dei nostri ospedali. Il resto viene importato da Germania e Olanda. La Regione Lombardia ha dato però l’ok nei mesi scorsi allo sviluppo di una produzione in proprio e questo potrebbe allargare questa nicchia ai privati, come chiedono in molti. «Abbiamo appena scritto al ministero della Salute per chiedere il via libera all’assegnazione di quote di coltivazione anche ad agricoltori certificati», anticipa Masini. Lo stesso Istituto europeo di oncologia ha appena lanciato un gruppo di studio ad hoc per a combattere i tabù contro l’uso terapeutico della cannabis».

GLI USI PER L'INDUSTRIA
A gonfie vele a livello economico (e senza intoppi eccessivi sul fronte normativo) viaggia anche la produzione di canapa per usi industriali: i derivati sono usati in mille settori differenti, dalla cosmetica agli eco-mattoni isolanti, dagli oli anti-infiammatori alle bio-plastiche fino alla filiera alimentare, settori che secondo molti rappresentano il vero futuro della materia prima. L’area grigia, quella dove c’è ancora da fare chiarezza, è quello dell’utilizzo della cannabis-light a uso ricreativo, la nicchia di mercato esplosa negli ultimi mesi muovendosi non senza difficolta (come dimostrano i sequestri delle forze dell’ordine in alcuni punti vendita) nella nebbia dell’incertezza legislativa. L’equivoco è doppio e un po’ velato di ipocrisia, come ha commentato con qualche ragione anche il New York Times raccontando il boom della canapa made in Italy: le infiorescenze di canapa possono essere vendute solo ad uso florovivaistico e di collezione. Non quindi per la combustioni e (alias il fumo) per cui in realtà vengono largamente utilizzate da chi le compra. Non solo: la legge consente agli agricoltori in campo di produrre materia prima con un contenuto di Thc fumo allo 0,6% per compensare gli sbalzi di clima indipendenti dalla volontà del contadino che possono modificare al rialzo questo parametro. E sugli scaffali è finita così spesso materia prima di psicotropo attivo superiore allo 0,2% teoricamente consentito. In qualche caso, dicono le malelingue, importata e trattata dalla Svizzera dove il limite è all’1%.
Comunque sia, il mercato è nato e cresce, molte startup - tutte italiane per ora - stanno investendo con successo per allagare il portafoglio dell’offerta. E la politica - se non decide di far chiarezza in tempi brevi - rischia di trovarsi di fronte al fatto compiuto. «Di sicuro a questo punto non possono più ignorarci - dice Luca Marola, fondatore di Easyjoint e uno dei  pionieri della liberalizzazione della cannabis - In questi giorni sono in corso le audizioni in commissione agricoltura e affari sociali e sono convinto che si arriverà a una risoluzione che finalmente ci metterà in condizione di lavorare con regole certe».

ATTENZIONE DAI BIG ESTERICe n’e bisogno anche perché le mille realtà spuntate nello Stivale - oltre ad aver diritto a un quadro normativo chiaro - iniziando ad attirare l’interesse dei big stranieri. La canadese Lgc Capital sta chiudendo una due diligence per acquisire per 4,7 milioni il 49% di Easyioint. «E quando abbiamo deciso di aprire il nostro capitale si sono presentanti ben sette potenziali acquirenti - racconta Marola - Canadesi, americani ma anche una azienda israeliana e due dal sud est asiatico».
«Cosa succederà ora? Che una volta scremato e inquadrato in norme precise, il mercato della canapa in Italia esploderà - dice Ricci - In fondo negli anni '40 eravamo il secondo produttore mondiale dopo la Russia. Si deve solo decidere con chiarezza chi e come deve vendere. Un’idea sarebbe quello di affidare ai Monopoli dello Stato la regia e io non escludo che in futuro anche Big Tobacco entri in forze nel settore».
Il via libera alla cannabis light - è il mantra di chi ha iniziato a lavorarci - e uno strumento per far cassa e ridurre l’ossigeno al narco-traffico illegale. «Noi serviamo tutte le generazioni - conclude Ricci dalla nonna che prende la farina alla canapa per il pane, fino alla mamma che vuole un cosmetico e la figlia che punta alle infiorescenze. E chi compra da noi paga il 22% di tasse e ha un prodotto controllato e non magari modificato con chimica illegale». E con un’Italia con le casse vuote l’appeal di far cassa anche affidandosi alla cannabis tenta anche un pezzo di politica a Roma.
Ettore Livini

(la Repubblica 11 febbraio)