Michele Giorgio
Sono
atti di odio razziale ma da queste parti parlano di “vandalismo” e i
media occidentali si adeguano alla definizione le rare volte in cui
prendono in considerazione queste notizie. Come se la scritta «Arabi?
Espellili o uccidili!», lasciata l’altra notte su un edificio del
villaggio palestinese di al Jib, alle porte di Gerusalemme, fosse simile
per gravità al gesto di un adolescente annoiato che riga la fiancata di
un’auto.
Intanto queste azioni compiute da estremisti di destra
israeliani si sono fatte più gravi e insidiose. Soprattutto in queste
ultime settimane, sebbene in totale (256) siano in calo rispetto
all’anno scorso (378). L’area presa di mira di recente è quella a
nord-ovest della Gerusalemme palestinese. Ma il «price-tag», il «prezzo»
che i palestinesi devono pagare secondo gli autori dei raid notturni,
si registra di frequente anche in Cisgiordania e nei centri abitati
arabi in Galilea, in territorio israeliano. Ogni volta la polizia
afferma di aver avviato un’indagine e varie autorità condannano
l’accaduto. Poi non accade nulla e cala il silenzio fino alla prossima
scorribanda.
I centri per i diritti umani, anche israeliani, denunciano
che i responsabili degli attacchi dopo l’arresto raramente sono portati
in giudizio.
Ad al
Jib sono state danneggiate 18 auto palestinesi. Altre 160 hanno subito
la stessa sorte qualche giorno fa nel quartiere di Shuafat a Gerusalemme
Est. Venti macchine sono state colpite nel villaggio arabo di Manshiya
Zabda, in Israele, e i responsabili del blitz notturno hanno lasciato
ovunque disegni e scritte contro gli arabi e l’Islam. Lo stesso è
avvenuto a novembre a Jaljulia (40 macchine danneggiate) e a Deir Ammar
(cinque auto). In precedenza hanno subito raid Yatma, Qabalan, Beit
Dajan, Majdal Bani Fadil e al Dik. Anche i palestinesi cristiani sono
nel mirino. Ne sanno qualcosa gli abitanti di Taybe, ad est di Ramallah.
Il villaggio qualche settimana fa è stato dichiarato dagli estremisti
israeliani “area militare chiusa Kumi Ori”. Si è trattato di un’azione
di appoggio alla protesta (violenta) dei coloni di Yitzhar, uno degli
insediamenti israeliani più ideologici, contro l’esercito che aveva
proclamato zona chiusa l’avamposto coloniale di Kumi Ori. Gli abitanti
di Yitzhar, che non esitano ad attaccare anche i soldati, sono accusati
di aggressioni agli agricoltori palestinesi che, a loro giudizio, non si
tengono a distanza dalla colonia quando vanno a coltivare i campi.
La
situazione attuale ricorda il periodo precedente alla scorribanda
omicida dell’estate del 2015 a danno della casa della famiglia
palestinese Dawabsha, nel villaggio di Duma, nei pressi di Nablus.
Nell’attacco con bottiglie incendiarie rimasero uccisi due genitori e il
loro bambino, Ali, di pochi mesi. In vita è rimasto solo il secondo
figlio, Ahmad, 11 anni, che porterà per sempre sul corpo i segni di
ustioni gravissime. I presunti responsabili sono stati arrestati e sono
sotto processo già da tre anni ma le notizie sull’andamento delle
udienze sono molto scarse.
Il Manifesto 20/12/2019