Dopo
4 anni di attesa, è stato svelato il nuovo piano di pace per il Medio
Oriente, proposto dagli Stati Uniti. Si differenzia nettamente dai
precedenti, perché stavolta chiede ai palestinesi, molto più che agli
israeliani, di rispettare dure condizioni e fare dolorose concessioni.
Era inevitabile che fosse così, non tanto perché l’amministrazione di
Donald Trump è visibilmente filo-israeliana, ma perché dal 2017
l’Autorità Palestinese ha troncato ogni rapporto con gli Usa.
Nessun
rappresentate dell’Autorità Palestinese ha presenziato alla
presentazione del piano, a Washington. Tuttavia c’erano gli ambasciatori
di Oman, Bahrain ed Emirati Arabi Uniti, alleati degli americani, che
potrebbero intercedere nel prossimo futuro, a nome del mondo arabo
sunnita. Ed è forse questo lo scopo del gioco.
Il
piano di pace, promesso quando si era ancora in campagna elettorale nel
2016, era stato annunciato nel dicembre 2017, quando Gerusalemme è
stata riconosciuta ufficialmente dagli Usa come capitale di Israele. Nel
maggio del 2018 l’ambasciata statunitense è stata trasferita da Tel
Aviv a Gerusalemme e il piano di pace avrebbe dovuto essere illustrato e
approvato in concomitanza dell’evento. Tuttavia, lo scoppio della
guerriglia nella striscia di Gaza ha indotto la diplomazia americana a
rinviare il tutto. Poi sono state le tre successivi crisi di governo
israeliane che hanno costretto a nuovi rinvii. Ad oggi in Israele, il
premier Netanyahu non ha una maggioranza. Ma in questo caso, con le
scadenze della politica americana che si avvicinano (elezioni
presidenziali a novembre), Trump ha deciso di convocare entrambi i
possibili capi di governo israeliani, sia Benjamin Netanyahu, premier in
carica, che Benny Gantz, leader di Blu-Bianco, partito centrista di
maggioranza relativa. Il piano di pace è stato concordato da tutti e
due: è dunque effettivo, per Israele, a prescindere da chi possa
diventare premier.
Le
maggiori condizioni chieste da Israele sono state concesse: annessione
della Valle del Giordano (confine naturale e soprattutto difendibile),
gli insediamenti ebraici in Cisgiordania, il riconoscimento di
Gerusalemme “capitale unita” di Israele. La Spianata delle Moschee,
principale luogo sacro islamico di Gerusalemme, sarà ancora amministrata
in base allo status quo, assieme alla Giordania. Lo Stato ebraico
ottiene anche il disarmo dei palestinesi che non avranno un loro
esercito e si dovrebbero impegnare a neutralizzare Hamas e Jihad
Islamica. Prima del riconoscimento dell’indipendenza, la Palestina dovrà
attendere 4 anni e rispettare precise condizioni: rinunciare alla lotta
armata, riconoscere Gerusalemme capitale di Israele, promulgare leggi
contro la corruzione e il terrorismo, disarmare e neutralizzare Hamas e
Jihad Islamica, appunto. In cambio, in questi stessi 4 anni, Israele
dovrà sospendere ogni costruzione di case nei territori assegnati alla
futura Palestina indipendente. Una volta ottenuto il riconoscimento, la
Palestina sarà uno Stato necessariamente diviso in due regioni separate,
Cisgiordania e Striscia di Gaza, fra loro collegate da un tunnel. E’
prevista la costituzione anche di aree economiche speciali per lo
sviluppo del futuro Stato, a Sud della Striscia di Gaza, ai confini del
deserto del Negev. Capitale della Palestina sarà Gerusalemme Est, ancora
indefinita, considerando che Gerusalemme israeliana resterà “unita”.
“Oggi
Israele ha fatto un passo da gigante verso la pace”, ha proclamato
Trump. “Noi respingiamo questo piano sin dall’inizio e la nostra causa è
giusta”, ha risposto a distanza Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità
Palestinese.
Fin
troppo facile scommettere che il piano è destinato a fallire. Ma c’è da
dire che anche i piani più generosi, compreso quello di Clinton, in cui
all’Autorità Palestinese veniva concessa gran parte di Gerusalemme e il
98% dei territori richiesti da Arafat, è stato anch’esso respinto,
nell’estate di 20 anni fa, proprio da Arafat. L’allora presidente
palestinese, storico leader dell’Olp, confidò che se avesse accettato
sarebbe stato assassinato. Meno di un mese dopo lanciò la Seconda
Intifadah, la più sanguinosa ondata di attentati nella storia di
Israele. La storia dei tentativi di partizione di quel territorio,
compreso fra il Giordano e il Mediterraneo, è una storia di fallimenti,
dal 1919 ad oggi. L’accordo fra Feisal e Weizmann del 1919 (quando non
erano ancora stati stabiliti i mandati), fu l’unico a fallire per cause
esterne: la politica di spartizione delle grandi potenze, Francia e
Impero Britannico. Tutti gli altri progetti di far nascere due Stati
fianco a fianco, da quello proposto dalla commissione Peel nel 1937
(sotto il mandato britannico), passando per quella proposta dall’Onu nel
1947 (alla vigilia dell’indipendenza di Israele dopo il ritiro
britannico), per arrivare ai tentativi più recenti di Bush jr. e Barack
Obama, sono sempre stati respinti dagli arabi, poi palestinesi. Se
questo ultimo piano dovesse avere un esito diverso, sarebbe solo per il
mutato atteggiamento del ricco mondo arabo sunnita, tradizionale sponsor
della causa palestinese, ma attualmente molto più spaventato dall’Iran
che da Israele.
The Washington Post