lunedì 30 marzo 2020

SE SAPESSIMO IMPARARE.....


L’effetto domino della guerra in Vietnam

La guerra del Vietnam (Netflix) è un film documentario. Il racconto muove dal 1850, quando i francesi trasformarono in colonia l’Indocina intera, cioè Vietnam, Laos e Cambogia. Poi la guerra con la Francia (dal 1945 al 1954) e i venti anni del conflitto con gli Usa, concluso nel 1975 con l’ambasciatore che fugge in elicottero. I filmati provengono da fonti diverse dalle solite e, come tratto specifico esibiscono i volti e i racconti di protagonisti veri, d’ogni parte, fazione o religione, compresi i vietcong e vari agenti Cia, ora a riposo. Il tutto disteso in dieci puntate pagate dal Public Broadcasting Service, che non è tv pubblica, ma aggregato di stazioni no profit che campano grazie ai soldi di università, chiese, fondazioni. Una tv “né né”: non generalista né di nicchia, diversa dalle altre grazie alla pluralità “colta” della base finanziaria.
Il film spiega l’intervento Usa entro la “teoria del domino” per cui, preso il Vietnam, il “comunismo” avrebbe dominato senza dubbio l’Asia. Oggi il Vietnam produce e consuma merci americane, ed è chiaro che quello fu un equivoco, ma pagato caro con 50.000 morti e il tramonto della mitica “nazione missionaria”, forgiata dall’etica e portatrice fatale di progresso.
Questo il rovello proposto all’audience Usa, la cui nazione, non più tormentata da valori e soltanto più forte di ogni altra, ha visto i presidenti Bush padre e figlio combinarne di cotte e crude in Medio Oriente, senza le crisi sociali e le canzoni innescate al tempo del Vietnam.
Da noi gli over 70 della “generazione Vietnam” compiranno un viaggio nel passato, quando appena svegli era normale porre l’orecchio ai bollettini del GR (ce n’era uno soltanto) pieno di nomi esotici, ma divenuti familiari: Saigon, Da Nang, Khe San; l’escalation, il Tonchino, il Tet (che spinse il ’68); Van Thieu, madame Nhu, Westmoreland.
Ne deriverà il dolce della reminiscenza. Ma anche, più aspro, il peso del giudizio retrospettivo, su se stessi. ondasuonda@repubblica.it.
Stefano Balassone – Repubblica 15/03