Lo psichiatra Cancrini "Questo è il tempo della cura non dell’odio"
di Simonetta Fiori
«Questo
è il tempo della cura, non dell’odio. Un tempo di ascolto e di dolore
condiviso che fa bene a tutti, anche ai miei pazienti che coltivano
dentro di sé le più terribili delle fantasie». La pandemia attraverso la
lente del professor Luigi Cancrini, uno dei più grandi psichiatri
italiani, è un’occasione di rigenerazione, «un’opportunità per scoprire
vicinanza e solidarietà, ossia le risorse più importanti per vivere
meglio».
Ottantuno anni, un lungo lavoro al fianco di Franco Basaglia,
negli anni Settanta ha fondato il Centro studi di terapia famigliare e
relazionale che considera la sua casa professionale.
Professor
Cancrini, stiamo sperimentando la solitudine, la paura, i morti, il
dolore, la sospensione della libertà. Molti hanno accostato il disagio
di oggi all’esperienza di una guerra.
«Io ho una memoria molto viva dei bombardamenti del 1943.
Abitavamo
vicino a San Lorenzo, il quartiere romano raso al suolo dagli
angloamericani, e ricordo molto bene il terrore, il rumore assordante
degli aerei, la fuga nelle cantine. Ma si tratta di esperienze molto
diverse».
Perché?
«La
guerra è il tempo dell’odio. In guerra per sopravvivere si è costretti a
uccidere l’altro, come recita la canzone di De André: Piero muore
perché esita a sparare contro il nemico, e paga con la vita la sua
premura verso l’avversario.
Invece questo di oggi è il tempo della vicinanza e della solidarietà.
Il nemico è esterno all’umanità e gli uomini sono costretti a unirsi per far fronte alla comune minaccia».
La paura ci fa scoprire la prossimità?
«Sì,
succede quando il nemico è comune a tutti. Mi ha colpito lo slogan:
resta a casa, così fai bene a te stesso e agli altri. L’idea che
aiutando se stessi si aiuta l’altro mette in moto un movimento emotivo
che fa crescere la solidarietà».
Un
sentimento molto lontano dall’umore collettivo dell’Italia più recente,
diagnosticata da diverse società psicoanalitiche come "psicopatica",
"paranoica", "autoritaria" e "intollerante".
«Io
userei termini diversi. Il nostro paese, come tutto l’Occidente, è
malato di narcisismo: avendo a disposizione tutto, tendiamo a sentirci
onnipotenti e allo stesso tempo sospettosi verso il prossimo,
considerato una minaccia per i nostri beni.
L’esperienza
del coronavirus ci mette di fronte al senso del limite – non possiamo
avere tutto – e alla necessità di legami solidali: può essere il rimedio
migliore per il nostro disturbo narcisista».
Ma in questi giorni lei ha avuto modo di riscontrare un cambiamento anche nei suoi pazienti?
«Mi
colpisce la reazione di quelli con disturbi psicotici, capaci di
elaborare le fantasie più terribili, proiettate all’esterno dal loro
mondo interiore. Ora che questa figura minacciosa si sostanzia
nell’immaginario di tutti, questi pazienti si sentono più "normali",
uguali agli altri. E quindi stanno meglio».
L’eccezionalità mette in campo energie insperate?
«È
un dato confermato dai manuali psichiatrici: molti malati gravi
migliorano in tempo di guerra. E diminuiscono i suicidi, perché nel
pericolo prevale l’istinto di sopravvivenza. Per la mente umana avere a
che fare con un nemico interno è molto peggio che avere a che fare con
un nemico esterno da cui ci si difende insieme agli altri».
Vale anche per chi soffre di tossicodipendenza?
«Sì,
chi vi è soggetto tende a fuggire da un pesante senso di morte
attraverso lo stordimento e l’atto del nascondersi alla realtà.
Quando bisogna stare in allerta per sconfiggere un nemico esterno, tutto questo viene meno».
Questi meccanismi reattivi scattano anche in chi non ha particolari patologie?
«Naturalmente. E viene potenziato quel sentimento di vicinanza di cui parlavo prima.
Finita
l’emergenza, dovremmo sforzarci di mantenerlo intatto, nella
consapevolezza che prossimità e solidarietà sono le risorse più
importanti per vivere meglio. Temo invece che la coesione prodotta
dall’eccezionalità possa venire meno con l’esaurirsi del virus. Ne vedo
già i segni nella polemica politica ospitata da qualche talk show».
Qual è il consiglio del terapeuta per coltivare nella difficoltà la fiammella vitale?
«In
psicoanalisi si dice che un buon terapeuta è quello che sa accogliere i
tempi del silenzio. Nel silenzio si trasmettono le emozioni, il
rispetto, le perplessità, i dubbi, anche i limiti della comunicazione
attraverso le parole. In questo momento ciascuno di noi, nella propria
casa, può sperimentare una costrizione al silenzio che potrebbe
riportarci a un rapporto migliore con noi stessi, e con gli altri».
Lei sperimenta questa trasformazione anche sul piano personale?
«Sì.
Anche se continuo a vedere i pazienti che hanno più necessità della
relazione terapeutica, ho più tempo per me, per leggere i miei amati
russi, per ascoltare musica classica e per suonare il pianoforte. Mi
capita di guardare gli alberi dalla finestra, che è una cosa che non
avevo mai fatto prima. E poi sogno moltissimo: ricordare i sogni è il
segno del ritrovato rapporto con se stessi».
Superata
l’emergenza sanitaria, la crisi economica e sociale sarà spaventosa.
Non c’è il rischio di tornare a un individualismo ancora più agguerrito?
«Sì, certo, tutto dipenderà da come questa crisi sarà gestita: se in termini solidali o di sopraffazione.
Da
uomo di sinistra, registro con tristezza che oggi in Europa i paesi
forti rifiutano la solidarietà a quelli più deboli. E mi fa paura il
modo in cui la grande speculazione agisce sulle borse».
Come
tutti i traumi collettivi anche il coronavirus lascerà dei segni. Tra i
simboli più crudeli di questa pandemia resterà la sfilata solitaria
delle bare. Si muore da soli. E si è costretti ad assistere impotenti
alla morte solitaria delle persone a cui si vuole bene.
«È
un aspetto angoscioso e terribile, ma anche in questi passaggi si
avverte una vicinanza e una condivisione collettiva a cui non eravamo
più abituati. Certo, i rituali del lutto sono fondamentali per
l’elaborazione della perdita. E l’impossibilità di piangere e di
abbracciarsi insieme nel momento della sepoltura può lasciare ferite
profonde. Molte delle patologie con cui mi confronto sono legate a lutti
mai elaborati».
Torneremo ad abbracciarci e a baciarci con la spensierata allegria di prima o dentro di noi agiranno paure inconsapevoli?
«Torneremo a farlo anche con maggiore entusiasmo, rivalutando tutte quelle cose che davamo per scontate».
Lei
ha definito questo del coronavirus il tempo della solidarietà e della
cura. Ne sono simbolo i medici e gli operatori sanitari impegnati in
prima linea.
«Freud
diceva che la vocazione del medico era legata all’idea di curare i
propri genitori. Io penso che in tante vocazioni delle professioni
sanitarie ci sia un sentimento profondo di amore per il genere umano.
Sono loro a guidare quella trasformazione della comunità alla quale oggi
dobbiamo guardare: è il modo migliore per non cedere allo sconforto».
La Repubblica 29/3