domenica 21 febbraio 2021

IL CORAGGIO DI 8 BIMBI AFRICANI

"Noi bimbi schiavi in Africa" E in otto portano in tribunale i colossi Usa del cioccolato 

Anna Lombardi

La Repubblica 14/02

NEW YORK — I ribelli della fabbrica del cioccolato. Aiutati da una no profit internazionale, otto lavoratori bambini hanno denunciato a un tribunale di Washington le sette più grandi multinazionali del cioccolato: Nestlé, Cargill, Barry Callebaut, Mars, Olam, Hershey e Mondel?z. Una class action, prima nel suo genere, dove le aziende sono accusate di «lavoro forzato, ingiusto arricchimento, supervisione negligente e danni fisici ed emotivi arrecati con dolo». 

Ovvero, di avere sfruttato il lavoro di migliaia di bambini, impiegati nelle piantagioni dei loro fornitori alla stregua di schiavi, privi di retribuzione. Le storie degli otto ragazzini, oggi giovani uomini, sono terribili: portati via a 10, 11 anni, dai loro villaggi in Mali, con la promessa alle famiglie di introiti sicuri, hanno lavorato per anni in condizioni di totale asservimento. Spruzzando quei pesticidi nel frattempo causa della deforestazione del territorio. 

O aprendo coi machete, di cui portano le cicatrici, le cabosse (i frutti- baccelli, cioè) per 12 ore al giorno, sempre senza paga. Privati anzi dei documenti, degli abiti, del riposo e, nutriti a malapena, perfino del cibo.

A sostenere gli otto nella titanica sfida ci pensa International Rights Advocates, organizzazione specializzata nell’assistenza legale internazionale alle vittime di soprusi, da tempo impegnata a combattere le terribili condizioni del lavoro minorile in Africa. Tanto da aver già denunciato pure Apple, Google, Dell, Microsoft e Tesla per il mancato controllo sulla provenienza dei metalli usati per realizzare le componenti dei loro smartphone, in buona parte estratti da bambini (con stipendi da fame) nelle miniere di columbite-tantalite del Congo. In entrambe i casi, approfittando della "Trafficking Victims Protection Reauthorization Act", una legge del 2017 nata proprio per codificare le azioni degli Stati Uniti contro stati e multinazionali che non rispettano gli standard. E in effetti le prove presentate sono incontestabili: dossier elaborati del dipartimento di Stato americano, dell’Unicef e dalla International Labour Organization, agenzia delle Nazioni Unite impegnata a promuovere giustizia e diritti umani nell’ambito del lavoro.

La realtà degli schiavi-bambini nelle piantagioni della Costa d’Avorio è purtroppo ben nota: e nel 1999 molte delle aziende sotto accusa hanno perfino siglato un protocollo, impegnandosi a sradicare la pratica entro il 2005. Una scadenza poi slittata di 20 anni, al 2025. In realtà basterebbe utilizzare prodotti certificati Fairtrade, solidali cioè, capaci di garantire al produttore e ai dipendenti prezzi "giusti" assicurando pure la tutela del territorio. Ma questo significa adeguare il prezzo di mercato (oggi circa 1,78 dollari al chilo) al reddito minimo di sussistenza dei coltivatori ivoriani - produttori del 45 per cento del cacao mondiale - pari a 2 dollari e 50 al giorno e dunque, almeno per ora, il cacao venduto attraverso quel canale è solo il 7 per cento di quello smerciato a livello globale. Il risultato, denuncia un’inchiesta del Guardian, è che so lo il 6 per cento del valore di una barretta di cioccolato arriva nelle tasche dei contadini africani. Il 33 arricchisce i commercianti all’ingrosso. E il 44 per cento i grandi marchi. 

E chissà se la class action contribuirà a cambiare le cose. Per ora, soltanto Cargill e Nestlè hanno reagito ribadendo il loro impegno contro il lavoro minorile: «I bambini appartengono alla scuola, meritano sicurezza e una buona alimentazione». Un obiettivo lontano.