Senza giustizia non c’è pace in Terrasanta
14-05-2021 -Domenico Gallo
Volerelaluna
Il
14 maggio ricorre il 73º anniversario della nascita dello Stato di
Israele, ma quest’anno c’è poco da celebrare.
La festa dell’indipendenza
coincide con un’esplosione di violenza, non solo militare, che pervade
tutta la società comprese le comunità che convivono nelle cittadine
miste come Lod, Aco e Ramble.
Se in 73 anni la popolazione di Israele
non ha vissuto un solo giorno di pace, evidentemente siamo in presenza
del fallimento del progetto politico che ha guidato la nascita dello
Stato d’Israele e il suo percorso storico fin qui realizzato.
Un
percorso storico che si è sciolto di ogni ambiguità anche da un punto di
vista formale con la legge approvata il 19 luglio 2018 con la quale
sono stati definiti la natura dello Stato e i suoi caratteri
fondamentali. Abbandonando ogni remora, sotto la guida di Netanyahu,
Israele si è autodefinito come uno Stato etnico-religioso, nel quale
l’autodeterminazione «è esclusivamente per il popolo ebraico» e sono
stati riconosciuti gli insediamenti dei coloni nei territori occupati
come «valore nazionale» (https://volerelaluna.it/materiali/2018/07/31/israele-stato-nazione-del-popolo-ebraico/).
In altre parole è stata “costituzionalizzata” una situazione di
discriminazione e di umiliazione del popolo palestinese perseguita con
accanimento e con un ventaglio di misure di carattere militare,
amministrativo e legislativo.
Negli ultimi tempi questa situazione di
oppressione è stata resa ancora più dura. Il 27 aprile è stato
pubblicato un rapporto di 213 pagine di Human Rights Watch, intitolato
Una soglia varcata. Autorità israeliane e crimini di apartheid e
persecuzione, in cui viene descritto dettagliatamente il trattamento
umiliante e discriminatorio riservato da Israele ai palestinesi nella
Cisgiordania occupata, nella Striscia di Gaza bloccata e nell’annessa
Gerusalemme est, oltre che agli arabi-israeliani.
Nelle
ultime settimane a Gerusalemme si è scatenata una repressione durissima
contro la protesta spontanea che si opponeva alle deportazioni e agli
“sfratti etnici” dal quartiere di Sheikh Jarrah della popolazione
palestinese, che lì vive da decenni.
Ma la provocazione ancora più grave
è stata l’irruzione dell’esercito israeliano nella spianata delle
moschee. In Italia negli anni del confronto politico rovente fra
comunisti e democristiani, veniva agitato lo spettro dei cavalli dei
cosacchi che si abbeveravano in piazza San Pietro.
In politica i simboli
sono importanti e quando colpiscono l’immaginario religioso incidono
profondamente nell’identità dei popoli. L’attacco alla moschea di
al-Aqsa è stato vissuto dalla popolazione musulmana come una
provocazione profonda. Ciò ha consentito ad Hamas di ergersi a
protettore dei palestinesi e di tutti i musulmani, inviando un
velleitario ultimatum a Israele a cui hanno fatto seguito una pioggia di
razzi lanciati da Gaza e i violentissimi bombardamenti delle forze
armate israeliane.
Al momento non
sappiamo se sarà negoziata una tregua o se Israele provocherà un altro
bagno di sangue lanciando un’operazione di terra. Quel che è certo è che
nessuna operazione militare potrà porre fine al conflitto e che la
straordinaria potenza militare di Israele non potrà garantire al popolo
israeliano di vivere in pace. Quando scoppiò la prima Intifada nel 1987,
seguì una durissima repressione. I soldati israeliani rompevano le ossa
delle braccia ai ragazzini di 15-16 anni catturati per “insegnare” loro
a non lanciare più le pietre. L’allora ministro della difesa Yitzhak
Rabin, commentò la repressione osservando che se i palestinesi si
ribellavano solo loro avrebbero sofferto.
Purtroppo Rabin, ucciso da un
colono il 4 novembre del 1995, sperimentò su se stesso che la violenza
contro gli altri si ritorce anche contro di noi. Non è possibile
separare il destino di due comunità umane che vivono sotto lo stesso
cielo, nel senso che non si può infliggere dolore all’altra comunità
restandone noi immuni (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2021/05/05/il-mio-rapporto-con-israele/).
L’attacco
con razzi compiuto da Hamas è doppiamente sbagliato, non solo perché
sul terreno della violenza bellica Israele è mille volte più forte
mentre sul terreno politico è un assist per consentire a un leader in
crisi come Netanyhau di mantenersi al potere, ma soprattutto perché è
un’azione totalmente iscritta nella “pedagogia del dolore”.
Cerca di
infliggere delle sofferenze ad Israele per “insegnargli” il rispetto dei
diritti del popolo palestinese.
Sennonché l’effetto è quello opposto:
più violenze si commettono e più diventa profondo l’oceano di odio che
divide le due comunità; più diventa difficile aprire la strada a un
percorso di riconciliazione fra i due popoli.
Il conflitto che da quasi
un secolo dilania la Terrasanta è la prova più tangibile del fallimento
di ogni politica che, confidando sulla superiorità delle armi, pretenda
di imporre la pace senza costruire la giustizia.
Non c’è pace senza giustizia.