Il governo è ancora in tempo: non inserisca l’industria bellica nel Recovery Plan!
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di Sofia Basso (Unità investigativa di Greenpeace Italia)
La
lobby delle armi ci riprova. Marginalizzata dalle linee guida europee
del Recovery Plan e dalla bozza del governo Conte, l’industria militare
tenta di entrare da protagonista nel Piano che sarà inviato a Bruxelles a
fine aprile. Un assalto ai fondi destinati a superare la crisi
economica e sociale della pandemia che incassa il sostegno del
Parlamento e l’impegno del governo.
Eppure,
uno studio commissionato dal Parlamento europeo boccia la spesa
italiana per i sistemi d’arma: terzultima per efficienza tra i Paesi
dell’Unione, con uno spreco del 90 per cento. Il blitz è avvenuto tra il
31 marzo e il 1° aprile, quando le Aule di Camera e Senato hanno
approvato a grande maggioranza le relazioni sul Recovery che
riprendevano i pareri delle commissioni parlamentari.
La
più agguerrita in tema di sostegno all’industria bellica è la versione
di Palazzo Madama, che riporta le raccomandazioni della commissione
presieduta dalla ex ministra della Difesa Roberta Pinotti (Pd).
L’esigenza, si dichiara subito, è “valorizzare anche il comparto della
Difesa nell’impegno complessivo per la ripresa e il rilancio del Paese”.
Come? “Dando piena attuazione ai programmi di specifico interesse volti
a sostenere l’ammodernamento e il rinnovamento dello strumento
militare”, sostenendo “le iniziative volte ad incrementare le capacità
della Difesa nel settore aerospaziale” e promuovendo “una visione
organica del settore Difesa, in grado di dialogare con la filiera
industriale coinvolta”.
Tanti giri di parole per chiedere una cosa sola:
che l’industria bellica possa attingere al tesoretto del Recovery,
anche se quel fondo è nato per rimettere in piedi il Paese dopo la
pandemia.
Recovery Plan, dalle
commissioni Difesa ok all’uso dei fondi europei nel settore armi.
Sottosegretario Mulè: ‘Stessa idea del governo’
Molto
simili le richieste di Montecitorio, che per il settore militare
riprendono la formulazione della commissione Difesa a guida
Cinquestelle. Unica differenza di rilievo: la dizione “anche in favore
degli obiettivi che favoriscano la transizione ecologica” a margine
della richiesta di “incrementare la capacità militare”. Raccomandazioni
inequivocabili che arrivano dopo che le commissioni Difesa di Camera e
Senato hanno audito numerosi esponenti dell’industria militare, tra cui
ben quattro volte l’ex sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto,
presidente della Federazione aziende italiane per l’aerospazio, la
difesa e la sicurezza (Aiad) e di Orizzonte sistemi navali
(Fincantieri), nonché senior advisor di Leonardo.
Per
evitare che il lavoro parlamentare rimanga sulla carta, Camera e Senato
hanno approvato una risoluzione sottoscritta da tutti i gruppi della
maggioranza che impegna il governo a “redigere il Piano nazionale di
ripresa e resilienza, nella sua versione definitiva, tenendo conto degli
orientamenti contenuti nella predetta Relazione”. L’esecutivo non si è
fatto pregare. In entrambe le discussioni in Aula sono intervenuti i
rappresentanti di Palazzo Chigi per esprimere “parere favorevole” alla
risoluzione che blinda le richieste delle Relazioni. Ancor prima che i
deputati votassero i testi in discussione, inoltre, il ministro
dell’Economia Daniele Franco annunciava “l’impegno del governo di
avvalersi delle indicazioni contenute nelle relative relazioni nella
redazione della nuova versione del Piano”.
E
non si tratta dell’unica assicurazione del tecnico di fiducia del
premier: “È importante rammentare che i progetti che non fossero inclusi
nel Piano non saranno necessariamente accantonati”, ha dichiarato in
sede di dibattito. “Non solo esistono gli altri strumenti nazionali ed
europei, ma stiamo pensando anche a costituire una linea di
finanziamento ad hoc, complementare al Piano, che includa i progetti di
investimento che, pur meritevoli di essere inclusi nel Piano per spirito
e finalità, ne siano esclusi perché non soddisfano alcuni criteri più
stringenti”.
Com’è noto, il settore
della Difesa non rientra nelle linee prioritarie di Bruxelles. Se
dovesse fallire la forzatura del Parlamento, quindi, c’è già un piano B,
malgrado la spesa italiana per i sistemi d’arma sia già in forte
crescita dall’anno scorso. Da qui l’appello di Greenpeace Italia: la
vera sicurezza deriva da investimenti in sanità, educazione, ambiente.
Le armi non ci difenderanno da questa e da altre pandemie e nemmeno
dalle crisi ambientali e climatiche che stravolgono gli ecosistemi con
impatti micidiali sulle popolazioni. Il governo è ancora in tempo: non
inserisca l’industria bellica nel Recovery Plan.
L’attenzione
per il settore della Difesa, comunque, era già evidente nell’ultima
versione di Recovery in circolazione, che definisce lo spazio e
l’aerospazio “due settori strategici per l’interesse del Paese”. Tutto
questo senza mai escludere l’uso militare. Anzi, in alcuni casi – come
la digitalizzazione, i satelliti, l’intelligenza artificiale e il super
computer – l’impiego bellico viene citato espressamente. Non solo: come
annunciato dal ministro per lo Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti
nel corso di un’audizione, il governo ha proposto all’Europa di
“aumentare le risorse destinate al piano relativo alla space economy”.
Il
ministro della Difesa Lorenzo Guerini, dal canto suo, è sempre stato
attento agli interessi dell’industria.
Il 27 maggio 2020, quando
l’Italia usciva in ginocchio dalla prima ondata pandemica, dichiarava
senza giri di parole: “Il nostro obiettivo è quello di individuare le
azioni più efficaci a sostenere il comparto industriale, confrontandoci
con l’Aiad e operando anche attraverso la rivisitazione delle priorità
delle esigenze capacitive, nell’ottica di favorire, in questa delicata
fase di rilancio, quelle più efficienti ai fini del sostegno
all’industria della difesa”.
Insomma,
più che la sicurezza dei cittadini, la priorità della Difesa sembra
essere il sostegno dell’industria bellica. Sempre sulla base del
ritornello del “ruolo importante di leva economica e precursore della
ripresa” del settore.
Peccato che uno
studio commissionato dal Parlamento europeo sulla qualità della spesa
pubblica dei Paesi membri dell’Unione abbia fatto i conti in tasca ai
bilanci nazionali, scoprendo che l’Italia è terzultima per efficienza
nella spesa per i sistemi d’arma, con uno spreco di quasi il 90% (contro
la media Ue del 52%). Su una spesa media annua (tra il 2005 e il 2018)
di 2,8 miliardi di euro, lo spreco – calcolato confrontando le
performance dei diversi Stati membri con il Paese più efficiente (in
questo caso la Francia) – ammonta a 2,5 miliardi.
Sul
banco degli imputati dello studio pubblicato a fine ottobre finisce
l’industria bellica europea, “caratterizzata dalla duplicazione di
costosi programmi di ricerca e sviluppo e da una produzione su piccola
scala per mercati nazionali che non permettono ai produttori di
sviluppare significative economie di scala”. Nel Vecchio Continente, ad
esempio, si contano 180 tipi diversi di fucili, carri armati, caccia e
navi contro i 30 degli Stati Uniti.
Per
il caso italiano, Raul Caruso, professore di Politica economica
all’università Cattolica di Milano e uno degli autori dello studio,
punta il dito contro Leonardo: “Quando c’è un’azienda monopolista che
serve un Paese acquirente unico, il mercato è inefficiente su entrambi i
lati. L’Italia, inoltre, sconta un ritardo tecnologico generale e la
convinzione che un’importante industria militare dia credibilità”. Armi
costose ma cruciali per la nostra sicurezza? Assolutamente no.
Fabrizio
Coticchia, professore di Scienze politiche all’università di Genova ed
esperto di strategia militare, fa notare che “la scelta di utilizzare le
risorse pubbliche per alimentare l’industria della Difesa – malgrado
gli sprechi e le duplicazioni dovuti soprattutto alla mancata
integrazione tra Marina, Aeronautica ed Esercito – è politica, non
tecnica, e deriva dalla volontà bipartisan di utilizzare le Forze armate
come uno degli strumenti principali di politica estera”.
Se
l’Italia spende quasi 6 miliardi di euro l’anno per acquisire gli
ultimi modelli di armi, insomma, non è per proteggerci da minacce contro
il nostro Paese, ma per “dare un contributo al contesto di alleanze nel
quale siamo inseriti e poter giocare un ruolo a livello regionale e
internazionale”. Chissà cosa ne pensano gli italiani gettati sul
lastrico dalle chiusure per Covid.