metaverso
A coniare la parola «metaverso», a inizio anni Novanta, è stato lo scrittore di fantascienza post-cyberpunk Neal Stephenson. Una realtà virtuale edificata grazie al web, e un ambiente immersivo dove l'individuo "vive" attraverso un avatar. Primo esempio, non di grande successo, fu Second Life. In seguito, a rendere cinematograficamente l'idea ci ha pensato Matrix. E adesso arriva Mark Zuckerberg, alle prese con una seria crisi reputazionale, che ha annunciato di destinare 50 milioni di dollari allo sviluppo di un suo metaverso.
Di certo si tratta anche di un'«arma di distrazione di massa» rispetto alle sue vicissitudini, ma la «nuova Internet» proclamata dal fondatore di Facebook è considerata da tutte le Big Tech come la frontiera degli investimenti (specie pubblicitari) e il prossimo prodotto rivoluzionario dopo lo smartphone. Dalla fantasia alla realtà, quindi. O, per meglio dire, all'edificazione di una dimensione parallela in un mondo dove si giustappongono sempre più, senza (voler) venire in contatto, tempi storici, ceti sociali e visioni (come il surreale universo complottistico in cui sono sprofondati tanti no-vax).
La
sensazione che non si riesce a
evitare
è, quindi, quella di un rischio
distopico
piuttosto reale e tutt'altro
che
romanzesco. Una sorta di assai
problematico
paradiso artificiale nel
quale
spedire la «classe globale inutile»,
come
la chiama Yuval Noah Harari, via via
allargata
dalla diffusione dell’automazione
e
dell'intelligenza artificiale. E questo
è
un tema altamente politico: anziché
incentivare
la fuga alla volta di uno
"stupefacente"
e fintamente gratificante
pianeta
alternativo, le classi dirigenti
avrebbero
il dovere di ricostruire una
realtà
dignitosa e decente per tutti. E di
riportare
i diversi gruppi sociali ad abitare
una
sfera pubblica comune e a condividere
lo
stesso spazio, se non fisico almeno
culturale
e morale: un altro dramma,
molto
concreto, che accompagna il
neoliberismo
postmoderno.
MASSIMILIANO
PANARARI,
L’Espresso 31 ottobre