Una nuova banalità del male
DI CORRADO AUGIAS
24/1 La Repubblica
Saturazione? È possibile. Tra le ultime uscite editoriali natalizie ho contato cinque titoli che rievocavano storie di ebrei scampati, o non scampati, alla Shoah. Qualcuno può cominciare a pensare che si stia esagerando, che un’eccessiva insistenza nuoccia. Forse però bisognerebbe chiedersi non se ci sia un eccesso di memorie, bensì a che cosa serva la memoria. La conoscenza dello sterminio nel dopoguerra s’è avviata lentamente, ci sono voluti anni perché si avesse piena conoscenza delle modalità e delle dimensioni dell’orrore. Molti erano interessati a nasconderle, compresi spesso gli ex internati che si vergognavano a riferire ciò che avevano dovuto subire, poveri esseri inermi testimoni del macello. Per la verità c’era stato un evento di portata mondiale che avrebbe potuto aprire gli occhi a molti. Il processo che a Norimberga nel 1946 aveva messo sotto accusa alcuni criminali nazisti. Fu solo in parte così. Quel processo venne criticato da chi aveva interesse a sostenere che si trattava della solita vendetta che i vincitori d’una guerra esercitano nei confronti dei vinti.
Questo ridusse il suo valore d’ammonimento. Poi ci fu un altro processo, venne celebrato a Gerusalemme nel 1961, imputato Adolf Eichmann. Due procedimenti diversi. Nel primo vennero per lo più esaminati fascicoli, documenti, più che le storie di esseri umani emersero le modalità generali, statistiche, dell’orrore. A Gerusalemme invece risuonarono soprattutto le testimonianze dal vivo dei superstiti che finalmente ebbero la forza di gridare la misura dei loro patimenti. Spesso era difficile ascoltare quelle testimonianze, tale il livello che la “banalità del male” aveva potuto toccare in quei luoghi che erano non campi di concentramento ma campi di sterminio, il loro fine era eliminare subito i prigionieri inadatti al lavoro, in seguito, progressivamente, gli altri. Le testimonianze emozionano più dei documenti, al limite possono avere un’influenza, temo però che questo accada solo a chi è già sensibile sull’argomento. Per molti anche le testimonianze più crude possono scivolare via come succede ogni giorno per i più efferati fatti di cronaca. Liliana Segre ha probabilmente detto parole chiave quando ha dichiarato che per lei le “pietre d’inciampo” sono più importanti del Giorno della Memoria perché «danno un nome alle vittime». Un nome è un nome: abitava lì, in quella casa, quelle erano le sue finestre, davanti a quel portone lo hanno preso. Non aveva colpe, era un essere umano come me.
Requiescat.