venerdì 13 gennaio 2023

La Repubblica 13/01

Se la guerra è un'abitudine

di Luigi Manconi


Poco lontano da me, nella carrozza di un Frecciarossa Bologna-Roma, una coppia medio-borghese parla di questioni che, inizialmente, non riesco a comprendere.
Poi, percepisco un' espressione e l'argomento prende forma: "bombe tattiche nucleari". La cosa mi incuriosisce, anche perché il linguaggio della coppia, oltre ad alcuni tratti esteriori, non sembra proprio qualificarli come specialisti del ramo.
Palesemente non sono alti ufficiali dell'esercito e nemmeno scienziati atomici, non consiglieri della Nato ma neanche collaboratori di riviste geopolitiche dai titoli marziali (che so? Guerra senza quartiere o Gli eserciti sono tutti belli).
Il seguito della conversazione mi conferma che si tratta di persone come me e come la gran parte dei lettori di questo giornale (babbani, per dirla con Harry Potter). Persone nel cui discorso quotidiano la guerra è entrata e si è insediata.
Così, le bombe tattiche nucleari, che si teme Vladimir Putin possa usare, si confondono nell'inconscio col nome di quel gruppo musicale bergamasco che si è esibito a Sanremo (Pinguini Tattici Nucleari); e diventa una sorta di nuovo format del colloquiare domestico, tra ansia e perplessità, tra panico e domande di rassicurazione.
Ora, notoriamente, la sociologia "da treno" (così come quella "da bar") ha conseguenze rovinose, sia per i sociologi, sia per quanti danno loro ascolto: e, dunque, non voglio trarre considerazioni generali da alcune frasi rubate. Che tuttavia ritengo un segnale, così come i molti altri che si colgono nell'aria.
Due giorni fa si è svolta al Senato la votazione sulla conversione del decreto relativo alla "cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari alle autorità governative ucraine". Il tutto in uno scenario largamente prevedibile e segnato, come dire?, dalla più quieta normalità: voto a favore della maggioranza, del Terzo Polo e del Pd, voto contrario dell'Alleanza Verdi e Sinistra e del M5S e persino due voti contrari per errore e due astensioni per "coscienza".
Nessuna drammatizzazione, ma nemmeno un elevato tasso di passione. In altre parole, il sostegno anche militare all'Ucraina, del quale resto tuttora convintissimo, sembra diventato una variabile politica non troppo dissimile da altre variabili politiche. Non credo sia colpa di alcuno, bensì l'esito di un processo di "assuefazione alla guerra" di cui siamo tutti vittime.
Si pensi che, poco più di due mesi fa, si tennero due manifestazioni sul tema dell'Ucraina: una particolarmente ampia a Roma e un'altra a Milano. Le due iniziative, convocate su piattaforme diverse, giungevano dopo settimane di dibattito e di polemica, ma, dal giorno dopo, è come se tutta quella tensione fosse evaporata. Come se,insomma, quella grande energia, fatta di emozione e intelligenza, si fosse esaurita nel fuoco d'artificio di un pomeriggio di striscioni e slogan.
E anche la discussione pubblica – deformata ma autentica – tra "filo-putiniani" e "anti-putiniani" è andata calando.
Ciò non esclude che la riflessione sulla guerra continui a condizionare i pensieri e i sentimenti dei cittadini, ma sembra aver perso la sua drammaticità. D'altra parte è vero che esiste un "lavoro della pace" che si sviluppa in modo appartato e silenzioso, fatto di scambi e cooperazione, interlocuzione e condivisione, anche all'interno dello stesso territorio ucraino, a opera dei pacifisti europei.
Ma anche questo, per paradosso, conferma che la guerra è diventata parte ineludibile del paesaggio fisico, mentale e morale. Fino a poco tempo fa si sentiva celebrare un'Europa che, dopo il 1945, avrebbe conosciuto "settant'anni di pace". Già allora si trattava di una menzogna, in quanto solo un gigantesco processo di rimozione può spiegare l'oblio al quale venivano consegnati l'assedio di Sarajevo, la strage di Srebrenica, gli attentati in Francia, Belgio, Inghilterra, Spagna e Germania.
C'è voluto Papa Bergoglio per ricordare che è in atto, e non da ieri, una «terza guerra mondiale a pezzi». Il dato più significativo è che questo conflitto "frantumato" si riproduce nella pace e tra coloro che, nella stragrande maggioranza, ritengono di vivere in una situazione di non guerra. È questa la radice dell'assuefazione di cui dicevo.
Gli uomini, le donne e - attenzione - i bambini, hanno introiettato questa situazione di non pace, vi si sono adeguati e la vivono come parte della normalità.
Le conseguenze sui tempi medi e lunghi saranno assai rilevanti, perché è la nostra stessa identità umana a esserne influenzata. Veniamo, infatti, da un triennio di particolare stress: la micidiale sequenza Covid/guerra ha costretto noi tutti a misurarci con una coppia di concetti che da decenni apparivano lontanissimi: le categorie di vita e morte non risultano più astratte, materia di mera speculazione filosofica, bensì immanenti e tangibili; altrettanti fattori di angoscia collettiva e, allo stesso tempo, oggetto di scelte radicali.
Il Covid ci dice che possiamo morire più facilmente e più crudelmente di quanto avessimo immaginato e la guerra in Ucraina esige di rispondere a domande come: devo armare l'aggredito per sconfiggere l'aggressore?
Vita e morte, come si è detto, e conseguenze profonde per noi e per i nostri figli. Assuefarci non è una buona medicina perché familiarizzare con la guerra e farne un'abitudine assomiglia terribilmente alla rassegnazione.
E alla resa.