SE KIEV HA PAURA DEI GIORNALISTI
VLADIMIRO ZAGREBELSKY
La Stampa 28/2/2023
Il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, garantito dalla Costituzione e dai testin europei e internazionali, ha un contenuto ampio. Esso riguarda certo l'atto di esprimersi con la parola, lo scritto o ogni altro mezzo di diffusione, ma anche quello di ricevere le informazioni e le opinioni che altri manifestano. E questi hanno il diritto di cercare e raccogliere le informazioni per poi diffonderle. Chi svolge questa funzione -principalmente il giornalista- ha il diritto di proteggere le sue fonti di informazione. Senza garanzia di riservatezza le fonti si esaurirebbero, specialmente quando sarebbero in grado di comunicare informazioni particolarmente sensibili o protette. La ragione di un così articolato contenuto di questa libertà risiede nel fatto che essa è uno dei principali pilastri di una società democratica. La libertà di stampa è necessaria per documentare e conservare le notizie di interesse pubblico. Essa e la deontologia dei giornalisti riguardano "non soltanto per le informazioni o le idee che sono accolte con favore o sono considerate inoffensive o indifferenti, ma anche per quelle che urtano, colpiscono, inquietano lo Stato o una qualunque parte della popolazione" (così la Corte europea dei diritti umani). Si tratta del cane da guardia della democrazia. Come altrimenti si formerebbero opinioni pubbliche informate e consapevoli?
Queste essenziali nozioni riguardano anche e forse a maggior ragione le informazioni e le opinioni che vengono raccolte ed espresse dai giornalisti dai fronti di guerra. Non si tratta soltanto dei giornalisti embedded, che seguono le operazioni al seguito di un esercito, ma anche e soprattutto degli altri, inviati dalle diverse testate o freelance, che sono più indipendenti ma corrono maggiori rischi (nella guerra in Ucraina sono finora morti 12 giornalisti e operatori dei media e 23 sono rimasti feriti). Essi operano in ambiente che è ostile allo sfuggire di informazioni spiacevoli per questa o quella parte belligerante. Governi e truppe hanno interesse a tener segrete non solo le operazioni militari, ma anche e forse soprattutto ciò che mette in cattiva luce il loro comportamento: prima di tutto le violazioni delle regole del diritto umanitario sulle operazioni di guerra e sulla protezione dei civili e dei prigionieri. La propaganda delle contrapposte parti diffonde e amplifica le malefatte degli altri, copre e nega le proprie. La comunicazione è parte e strumento della guerra.
È indispensabile che i giornalisti possano svolgere il loro lavoro il più efficacemente possibile, anche quando cercano e documentano lo svolgimento delle guerre. Non si tratta di un diritto solo loro. È un diritto di ciascuno di noi e della pubblica opinione in generale: quello di essere informati. Di non essere solo oggetto e vittime della (dis)informazione ufficiale proveniente da una parte o, a parte ciò, anche solo della informazione ridotta che consegue alla limitatezza delle fonti. Tutti gli Stati -in particolare quelli belligeranti- hanno doveri che corrispondono alle "obbligazioni positive" riguardanti i diritti e le libertà individuali. Essi devono consentire ai giornalisti di svolgere liberamente il loro lavoro e proteggerne l'incolumità. Sono obblighi indiscussi a livello internazionale. Sono stati anche enunciati dalla Risoluzione 2222 del 2015 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e derivano dalla Convenzione di Ginevra del 1949 sulla protezione dei civili in tempo di guerra. È stato affermato che "gli Stati devono facilitare l'accesso dei giornalisti e delle loro attrezzature al territorio fornendo i necessari documenti e permessi. Essi devono evitare di prendere misure restrittive contro i giornalisti, come il diniego o il ritiro dell'accredito o l'espulsione a causa dell'esercizio del loro compito o del contenuto dei loro rapporti. E gli Stati devono provvedere in modo non discriminatorio o arbitrario nei confronti dei giornalisti locali o stranieri".
Il conflitto in Ucraina mette a dura prova la libertà dei giornalisti reporter di guerra. Non si tratta solo del comportamento del governo russo; in proposito nessuna sorpresa, poiché l'oppressione della loro libertà è laggiù storica e di sistema, ma anche dalla parte ucraina. Di quest'ultima in modo speciale occorre occuparsi perché riguarda "questa parte" del conflitto e non "quell'altra". Due giornalisti italiani, Andrea Sceresini e Alfredo Bosco, si sono visti ritirare l'accreditamento e sono stati costretti a interrompere il loro lavoro in Ucraina. Hanno raccolto voci secondo le quali il Sbu, servizio di sicurezza ucraino, li sospetterebbe d'essere filorussi, per il lavoro da loro svolto fin dall'inizio del conflitto nel 2014 nelle regioni separatiste di Donetsk e Lugansk. Ma nessuna contestazione è stata loro rivolta; nessuna motivazione è stata data. Inutile è stato l'intervento dell'Ambasciata italiana, così come quello della Federazione nazionale della stampa. I due hanno così dovuto abbandonare il territorio ucraino. Non conoscendo il valore giornalistico di quanto hanno fatto in Ucraina, il commento ha da essere di principio. Essi certo avrebbero portato alla nostra informazione una voce in più, rispetto a quanto raccolgono e comunicano i giornalisti italiani e internazionali che operano laggiù. Lamentare che quella "voce in più" sia stata impedita nulla toglie all'apprezzamento del lavoro che ogni giorno svolgono i giornalisti su quel teatro di guerra. Ma non è a un governo di cui l'Italia è alleata che si deve lasciar passare senza reazione la violazione di una regola fondamentale.