Le “prigioni galleggianti”, il nuovo piano del Regno Unito per la prima accoglienza
24.07.23 - Francesca Reppucci - Pressenza
Fanno discutere in UK, e non solo, le “prigioni galleggianti” volute fortemente dal Primo Ministro britannico Rishi Sunak e il Ministro dell’Interno Suella Braverman.
Una misura per risparmiare sul costo
della prima accoglienza che ora prevede la sistemazione in albergo dei
richiedenti asilo.
“Bibby Stockholm” è il nome della chiatta marittima che per i prossimi 18 mesi sarà utilizzata dal governo britannico per “ospitare” fino a 506 richiedenti asilo uomini, tra i 18 e i 56 anni, in attesa che si concluda l’iter della domanda di accoglienza nel Paese.
Abbiamo parlato del nuovo piano del governo britannico e della campagna “No floating prisons” in questa intervista a Tigs Louis-Puttick, fondatrice dell’ONG Reclaim The Sea. L’attivista il 18 luglio scorso è stata arrestata «per essermi fermata in strada davanti al Ministero degli Interni con un cartello che diceva ‘Refugees Welcome’ e ‘No all’Immigration Bill, No Floating Prisons‘», ha dichiarato Tigs Louis-Puttick 1. Nello stesso giorno la “Bibby Stockholm” attraccava nel porto di Portland.
Il nuovo piano del governo britannico prevede la prima accoglienza di 500 persone richiedenti asilo in una gigantesca chiatta-alloggio ancorata in un porto nel Canale della Manica, violando la libertà di movimento e il diritto alla privacy.
Il 5 aprile 2023 l’Ufficio degli Interni britannico (Home Office) ha annunciato l’avvio di un piano per “accogliere” le persone migranti su una gigantesca chiatta-alloggio (la Bibby Stockhom), che giacerà all’interno del porto dell’isola di Portland, nel Canale della Manica. Secondo quanto dichiarato, la decisione è stata presa per “(…) ridurre l’insostenibile pressione sul sistema d’asilo britannico e ridurre l’onere economico che pesa sui contribuenti, causato dall’aumento significativo degli attraversamenti del Canale della Manica” 2.Da quanto emerge dalle dichiarazioni ufficiali dell’Home Office, la Bibby Stockholm diventerà operativa da luglio per un periodo iniziale di 18 mesi, e ospiterà fino a 500 richiedenti asilo uomini, tra i 18 e i 65 anni. La chiatta giacerà in un’area cosiddetta “protetta” del porto, da dove sarà possibile uscire e accedere al centro abitato solamente tramite un servizio autobus dedicato. A bordo, sarà presente un servizio di lavanderia, un catering per i pasti e degli spazi comuni. Sebbene sarà permesso scendere e accedere terra ferma, al momento, per gli ospiti, non è prevista l’erogazione di alcun servizio relativo all’accoglienza al di fuori del porto 3.
È più che evidente come, l’Home Office miri alla limitazione della libertà di movimento delle persone migranti, riducendola ai minimi termini. Secondo quanto stimato da The Independent lo spazio che ogni persona avrà a disposizione sulla chiatta sarà di appena 15 metri quadri, “la misura di un posto auto”.
Richard Drax, esponente del partito Conservatore britannico, l’ha definita una “quasi-prigione”, dove le persone saranno lasciate “sedute a girarsi i pollici”. Secondo James Wilson, direttore dell’organizzazione Detention Action (che fornisce supporto all’interno dei centri di detenzione per l’immigrazione illegale), non è che “(…) una chiatta angusta e simile ad una prigione” 4. E, a ragion del vero, è lo stesso Home Office, in diverse dichiarazioni ufficiali, a dichiarare esplicitamente la propria intenzione di “minimizzare l’impatto sulle comunità locali”, come dichiarato nel comunicato stampa del 5 aprile 2023, e ribadito, a più riprese nella Scheda Informativa disponibile sul proprio sito ufficiale.
Di fronte all’ennesimo scenario di un sistema d’accoglienza sempre più restrittivo e non curante dei diritti delle persone richiedenti asilo, c’è chi non è rimasto indifferente e, anzi, ha dato il via ad una vera e propria lotta per i diritti delle persone migranti. In un’intervista per Melting Pot, parla Tigs Louis-Puttick, fondatrice dell’ONG Reclaim The Sea, che, fornendo lezioni di nuoto e surf alle persone migranti, ha l’obiettivo di accrescere la loro qualità di vita, e aiutarle trasformare il mare da un evento traumatico a uno spazio di libertà e guarigione. A maggio, Reclaimthesea ha redatto una lettera aperta a Suella Braverman, Segretaria di Stato per gli Affari Interni, domandando l’abbandono del progetto, firmata da 706 individui e 91 organizzazioni e collettivi, tra cui Medici Senza Frontiere UK e Sea-Watch. Lo scorso 21 maggio, insieme all’ONG Europe Must Act, Reclaimthesea ha guidato una protesta di fronte all’Home Office, e dato il via alla campagna “No floating prisons” (No alle prigioni galleggianti), che comprende una serie attività ed eventi di protesta e sensibilizzazione.
«Abbiamo deciso di chiamare la campagna di protesta No floating prisons per l’approccio generale che ne rispecchia il carattere di questi luoghi. L’attuale processo di ristrutturazione della chiatta prevede l’aumento dei posti da 220 a 500, il che vorrà dire stipare le persone in pochissimo spazio, violando la loro privacy e il diritto allo spazio personale. Il piano è che, direttamente al loro arrivo, le persone saranno sistemate sulla chiatta, che pare non sarà nemmeno attraccata alla terraferma. Inoltre, Portland è un porto chiuso, recintato, non si può entrare e uscire liberamente. Le autorità potrebbero arbitrariamente decidere di negare il permesso a lasciare il porto e, siccome è un porto privato, non abbiamo controllo sulle decisioni delle autorità, ne possiamo essere certi che daranno informazioni».
Sui rischi delle prigioni galleggianti, Tigs dice: «La quasi totalità delle persone migranti presenti nel Regno Unito ha dovuto affrontare un attraversamento in mare, che sia dalla Libia all’Italia, dalla Turchia alla Grecia o il Canale della Manica. Molti di loro hanno vissuto qualche tipo di trauma legato al mare. Perciò l’idea di farli stare ancora in una barca equivale letteralmente a relegarli nel reale, fisico luogo del trauma. Inoltre, solo il 25% degli uomini e il 18% delle donne provenienti dall’Africa Orientale (area di provenienza di molti dei richiedenti asilo nel Regno Unito) sa nuotare. Dunque, se per qualsiasi motivo qualcuno dovesse cadere in acqua dalla barca o dal molo, rischierebbe seriamente la morte, anche per via delle temperature gelide. Infine, molti hanno vissuto momenti di prigionia nei loro paesi d’origine o nei paesi transito. Arrivano qui e ciò che li aspetta è praticamente un’altra prigione».
La preoccupazione delle prigioni galleggianti è anche legata all’accordo tra Regno Unito e Ruanda, che prevede la ricollocazione permanente dei richiedenti asilo arrivati irregolarmente nel Regno Unito al Rwanda, affinché la loro domanda d’asilo venga esaminata lì 5. «E’ sostanzialmente una sala d’attesa per chi sarà portato in Ruanda, che non è un Paese sicuro, poiché ci sono già tantissimi rifugiati e poche risorse. Come si può pensare di portare qualcuno, che per esempio viene dall’Afghanistan, in Ruanda? Cosa faranno lì? Tutto ciò è solo un’esternalizzazione in stile coloniale delle responsabilità del Regno Unito verso il diritto all’ asilo. Ci preoccupa davvero il fatto che queste persone, possano essere spinte al suicidio, perché capiranno che stanno aspettando solo di essere deportate».
Infine, secondo Tigs «ciò che sta facendo il Regno Unito fa parte di una tendenza più ampia che sta nascendo in Europa, copiata da Grecia e Italia, quando tenevano le persone in quarantena su una nave durante la pandemia. Nel 2021 ho preso parte a una missione di soccorso con Sea Watch; siamo arrivati al porto di Trapani con 200 persone a bordo, dopo 12 giorni di navigazione e un’enorme nave ci stava aspettando, per trasferire le persone dalla nostra imbarcazione. Le persone non volevano andare. Volevano scendere a terra. Avevano paura di cosa avrebbero trovato, di restare in acqua, di sentirsi male».
In conclusione, sebbene sia la prima volta che il Regno Unito decide di adottare un sistema del genere, tenere le persone migranti il più possibile segregate rispetto alla popolazione locale, riducendo il loro spazio vitale al minimo, operare al risparmio sull’accoglienza ed esternalizzare le frontiere non rappresenta alcuna novità. Al contrario, è solo l’ennesimo triste passo verso una tendenza consolidata, dei democraticissimi Stati europei, di lavarsi le mani dal dovere di salvare vite umane, accogliere, e rispettare il diritto all’asilo.
“Bibby Stockholm” è il nome della chiatta marittima che per i prossimi 18 mesi sarà utilizzata dal governo britannico per “ospitare” fino a 506 richiedenti asilo uomini, tra i 18 e i 56 anni, in attesa che si concluda l’iter della domanda di accoglienza nel Paese.
Abbiamo parlato del nuovo piano del governo britannico e della campagna “No floating prisons” in questa intervista a Tigs Louis-Puttick, fondatrice dell’ONG Reclaim The Sea. L’attivista il 18 luglio scorso è stata arrestata «per essermi fermata in strada davanti al Ministero degli Interni con un cartello che diceva ‘Refugees Welcome’ e ‘No all’Immigration Bill, No Floating Prisons‘», ha dichiarato Tigs Louis-Puttick 1. Nello stesso giorno la “Bibby Stockholm” attraccava nel porto di Portland.
Il nuovo piano del governo britannico prevede la prima accoglienza di 500 persone richiedenti asilo in una gigantesca chiatta-alloggio ancorata in un porto nel Canale della Manica, violando la libertà di movimento e il diritto alla privacy.
Il 5 aprile 2023 l’Ufficio degli Interni britannico (Home Office) ha annunciato l’avvio di un piano per “accogliere” le persone migranti su una gigantesca chiatta-alloggio (la Bibby Stockhom), che giacerà all’interno del porto dell’isola di Portland, nel Canale della Manica. Secondo quanto dichiarato, la decisione è stata presa per “(…) ridurre l’insostenibile pressione sul sistema d’asilo britannico e ridurre l’onere economico che pesa sui contribuenti, causato dall’aumento significativo degli attraversamenti del Canale della Manica” 2.Da quanto emerge dalle dichiarazioni ufficiali dell’Home Office, la Bibby Stockholm diventerà operativa da luglio per un periodo iniziale di 18 mesi, e ospiterà fino a 500 richiedenti asilo uomini, tra i 18 e i 65 anni. La chiatta giacerà in un’area cosiddetta “protetta” del porto, da dove sarà possibile uscire e accedere al centro abitato solamente tramite un servizio autobus dedicato. A bordo, sarà presente un servizio di lavanderia, un catering per i pasti e degli spazi comuni. Sebbene sarà permesso scendere e accedere terra ferma, al momento, per gli ospiti, non è prevista l’erogazione di alcun servizio relativo all’accoglienza al di fuori del porto 3.
È più che evidente come, l’Home Office miri alla limitazione della libertà di movimento delle persone migranti, riducendola ai minimi termini. Secondo quanto stimato da The Independent lo spazio che ogni persona avrà a disposizione sulla chiatta sarà di appena 15 metri quadri, “la misura di un posto auto”.
Richard Drax, esponente del partito Conservatore britannico, l’ha definita una “quasi-prigione”, dove le persone saranno lasciate “sedute a girarsi i pollici”. Secondo James Wilson, direttore dell’organizzazione Detention Action (che fornisce supporto all’interno dei centri di detenzione per l’immigrazione illegale), non è che “(…) una chiatta angusta e simile ad una prigione” 4. E, a ragion del vero, è lo stesso Home Office, in diverse dichiarazioni ufficiali, a dichiarare esplicitamente la propria intenzione di “minimizzare l’impatto sulle comunità locali”, come dichiarato nel comunicato stampa del 5 aprile 2023, e ribadito, a più riprese nella Scheda Informativa disponibile sul proprio sito ufficiale.
Di fronte all’ennesimo scenario di un sistema d’accoglienza sempre più restrittivo e non curante dei diritti delle persone richiedenti asilo, c’è chi non è rimasto indifferente e, anzi, ha dato il via ad una vera e propria lotta per i diritti delle persone migranti. In un’intervista per Melting Pot, parla Tigs Louis-Puttick, fondatrice dell’ONG Reclaim The Sea, che, fornendo lezioni di nuoto e surf alle persone migranti, ha l’obiettivo di accrescere la loro qualità di vita, e aiutarle trasformare il mare da un evento traumatico a uno spazio di libertà e guarigione. A maggio, Reclaimthesea ha redatto una lettera aperta a Suella Braverman, Segretaria di Stato per gli Affari Interni, domandando l’abbandono del progetto, firmata da 706 individui e 91 organizzazioni e collettivi, tra cui Medici Senza Frontiere UK e Sea-Watch. Lo scorso 21 maggio, insieme all’ONG Europe Must Act, Reclaimthesea ha guidato una protesta di fronte all’Home Office, e dato il via alla campagna “No floating prisons” (No alle prigioni galleggianti), che comprende una serie attività ed eventi di protesta e sensibilizzazione.
«Abbiamo deciso di chiamare la campagna di protesta No floating prisons per l’approccio generale che ne rispecchia il carattere di questi luoghi. L’attuale processo di ristrutturazione della chiatta prevede l’aumento dei posti da 220 a 500, il che vorrà dire stipare le persone in pochissimo spazio, violando la loro privacy e il diritto allo spazio personale. Il piano è che, direttamente al loro arrivo, le persone saranno sistemate sulla chiatta, che pare non sarà nemmeno attraccata alla terraferma. Inoltre, Portland è un porto chiuso, recintato, non si può entrare e uscire liberamente. Le autorità potrebbero arbitrariamente decidere di negare il permesso a lasciare il porto e, siccome è un porto privato, non abbiamo controllo sulle decisioni delle autorità, ne possiamo essere certi che daranno informazioni».
Sui rischi delle prigioni galleggianti, Tigs dice: «La quasi totalità delle persone migranti presenti nel Regno Unito ha dovuto affrontare un attraversamento in mare, che sia dalla Libia all’Italia, dalla Turchia alla Grecia o il Canale della Manica. Molti di loro hanno vissuto qualche tipo di trauma legato al mare. Perciò l’idea di farli stare ancora in una barca equivale letteralmente a relegarli nel reale, fisico luogo del trauma. Inoltre, solo il 25% degli uomini e il 18% delle donne provenienti dall’Africa Orientale (area di provenienza di molti dei richiedenti asilo nel Regno Unito) sa nuotare. Dunque, se per qualsiasi motivo qualcuno dovesse cadere in acqua dalla barca o dal molo, rischierebbe seriamente la morte, anche per via delle temperature gelide. Infine, molti hanno vissuto momenti di prigionia nei loro paesi d’origine o nei paesi transito. Arrivano qui e ciò che li aspetta è praticamente un’altra prigione».
La preoccupazione delle prigioni galleggianti è anche legata all’accordo tra Regno Unito e Ruanda, che prevede la ricollocazione permanente dei richiedenti asilo arrivati irregolarmente nel Regno Unito al Rwanda, affinché la loro domanda d’asilo venga esaminata lì 5. «E’ sostanzialmente una sala d’attesa per chi sarà portato in Ruanda, che non è un Paese sicuro, poiché ci sono già tantissimi rifugiati e poche risorse. Come si può pensare di portare qualcuno, che per esempio viene dall’Afghanistan, in Ruanda? Cosa faranno lì? Tutto ciò è solo un’esternalizzazione in stile coloniale delle responsabilità del Regno Unito verso il diritto all’ asilo. Ci preoccupa davvero il fatto che queste persone, possano essere spinte al suicidio, perché capiranno che stanno aspettando solo di essere deportate».
Infine, secondo Tigs «ciò che sta facendo il Regno Unito fa parte di una tendenza più ampia che sta nascendo in Europa, copiata da Grecia e Italia, quando tenevano le persone in quarantena su una nave durante la pandemia. Nel 2021 ho preso parte a una missione di soccorso con Sea Watch; siamo arrivati al porto di Trapani con 200 persone a bordo, dopo 12 giorni di navigazione e un’enorme nave ci stava aspettando, per trasferire le persone dalla nostra imbarcazione. Le persone non volevano andare. Volevano scendere a terra. Avevano paura di cosa avrebbero trovato, di restare in acqua, di sentirsi male».
In conclusione, sebbene sia la prima volta che il Regno Unito decide di adottare un sistema del genere, tenere le persone migranti il più possibile segregate rispetto alla popolazione locale, riducendo il loro spazio vitale al minimo, operare al risparmio sull’accoglienza ed esternalizzare le frontiere non rappresenta alcuna novità. Al contrario, è solo l’ennesimo triste passo verso una tendenza consolidata, dei democraticissimi Stati europei, di lavarsi le mani dal dovere di salvare vite umane, accogliere, e rispettare il diritto all’asilo.