giovedì 11 gennaio 2024

NON POTEVO LASCIARLO SOLO

 Emilia DE RIENZO*

 

"Non so nemmeno come si chiama, ma non potevo lasciarlo solo nel deserto, sarebbe morto. E allora l'ho portato con me, ci siamo imbarcati insieme". Così ha raccontato ai suoi soccorritori un giovane migrante di origini africane, ancora minorenne, sbarcato alcuni giorni fa a Lampedusa. Ha incontrato un bambino di tre anni lungo la traversata del Sahara cercando faticosamente di raggiungere la costa africana, come tanti altri. Ha visto e vissuto l'inferno e in quell'inferno il bambino rimasto solo.

Si è accostato a lui senza parlare, senza dire nulla. Lui l'ha preso per mano e non si sono più separati. Insieme hanno raggiunto la Tunisia e alla fine hanno attraversato il Mediterraneo e sono sbarcati, stremati, a Lampedusa (il piccolo è stato assistito dai volontari di Save The Children e dopo alcuni giorni affidato dal Tribunale dei minori a una coppia di Lampedusa, ndr).

Un piccolo episodio in mezzo a un'immane tragedia. In mezzo all'incalzare degli eventi drammatici di questi giorni, alle dichiarazioni convulse e crudeli di chi dovrebbe, invece, essere la nostra guida morale, in questo scorrere ogni giorno di immagini che non ci permettono di mettere a fuoco nulla, che ci impediscono di riflettere e provare compassione, improvvisamente è come se il tempo si fosse fermato per restituirci la bellissima immagine di questi due esseri umani che si tengono per mano verso la salvezza (almeno questo sperano).

Sono un concentrato di umanità le parole pronunciate dal giovane migrante africano: "Non potevo lasciarlo solo", "sarebbe morto", e allora "l'ho portato con me". Un gesto che contiene tutta quella bellezza che può rendersi visibile anche in piccoli momenti e gesti umani. Non potevo… una prova di grande moralità non esibita contro la feroce disumanità e crudeltà esibita in questi giorni.

Una parabola che contiene dentro il senso della vita che non può prescindere dal "prendersi cura" a tutti i costi di chi è più debole. Un imperativo morale che dovrebbe essere guida nelle nostre scelte. Il germe di una società in cui tutti vorremmo vivere, ma che, non dovremmo dimenticarlo, tocca, in realtà ad ognuno di noi costruire giorno dopo giorno come ha fatto quel ragazzo con quel bambino.

Un semplice gesto di umanità, che rivela, però, un modo di essere, sentire, vivere, stare in relazione con gli altri, che si manifesta spontaneamente, al momento giusto solo se coltivata in sé stessi, solo se prevale sul nostro individualismo.

Coltivare la nostra umanità ci aiuta, anche nei momenti più difficili e duri della nostra esistenza, rimanere vitali. Coltivare l'umanità ci aiuta a non pensare a nulla di fronte a una richiesta di aiuto di chi è più debole e ha bisogno di noi. Coltivare l'umanità vuol dire combattere in primis l'indifferenza la grande malattia della nostra società che uccide prima di tutto la vita in noi.

Questo mondo ha bisogno di coraggio, di visione, di persone che sappiano guardare "oltre", che sappiano tornare a sperare, per costruire ponti, per abbattere muri, confini, per contaminarci, per ricolorarci. L'unica paura da combattere è quella di perdere la nostra umanità.

Siamo responsabili come singoli e società civile di contribuire a sviluppare pratiche e contesti di vita in cui l'umanità dell'altro sia riconosciuta e fatta fiorire.

Dicendo no a tutte le narrazioni e pratiche che viceversa la negano.

Dicendo no a tutte le prigioni in cui si vuole rinchiudere chi in qualche modo turba la nostra "quiete".

Per non diventare "ciechi".

* Insegnante a Torino

Qualevita, dicembre 2023