120 milioni di profughi e la comunità internazionale non risponde
120 milioni di persone obbligate a lasciare la loro
terra. Queste sono le cifre dello spostamento forzato quantificate in maggio
nel rapporto annuale dell’UNHCR, che constata un aumento continuo nelle cifre
annuali da dodici anni a questa parte. Questi numeri rappresentano un mondo
scosso sempre più da conflitti e dalla persistenza di crisi che non finiscono.
Il dodicesimo Paese mondiale in termini di
popolazione: a questo corrispondono i 120 milioni di rifugiati, messi tutti
insieme. Le Nazioni Unite illustrano così le cifre stimate delle tante persone
condannate all’esilio; uno Stato grande come il Giappone in cui una porzione
importante degli abitanti sarebbero sudanesi, in concreto più di 10 milioni. E
tale è la battaglia di questo Paese, dove la popolazione profuga già batteva i
record prima dell’inizio dell’ultima guerra nell’aprile 2023, che è una delle
cause principali dell’aumento di persone allontanate dalle proprie case, anche
se la Siria continua ad essere in testa alla lista dei Paesi con persone
profughe, arrivando a 13,8 milioni.
Dall’UNHCR parte l’appello alle parti coinvolte
nei conflitti armati che mettono in fuga tante persone, a rispettare il diritto
internazionale per la protezione della popolazione civile
La riattivazione del conflitto armato che non è
mai finito nella Repubblica Democratica del Congo e l’ampia crisi in cui si
trova il Myanmar, in guerra dal 2021, aggiungono milioni di profughi interni in
fuga dalla violenza. Infine, Gaza porta una svolta storica nel conteggio con
l’espulsione di tre quarti della popolazione dalle loro residenze, in totale
più di 1,7 milioni di persone profughe per l’offensiva genocida israeliana; in
molti casi si tratta della seconda volta, dato che in gran parte i profughi
erano già rifugiati.
Davanti a questa panoramica, l’UNHCR chiede alla
comunità internazionale di affrontare le cause di questo fenomeno. Chiede
inoltre alle parti coinvolte nei conflitti armati che spingono alla fuga tante
persone di rispettare il diritto internazionale per quanto riguarda la
protezione della popolazione civile. Avvertono che, se non si agirà come
segnalato e con altre iniziative che confrontino la crisi climatica o le
violazioni dei diritti umani, la tendenza allo spostamento forzato di milioni
di persone non farà altro che aggravarsi.
Non è facile andarsene quando si vive in una
situazione di guerra o persecuzione; un po’ più della metà delle persone
profughe, 68,3 milioni, non hanno abbandonato il territorio e rimangono nel
loro Paese. Di nuovo, il numero è aumentato in questi ultimi anni, ormai quasi
il 50% in più in cinque anni. I Paesi limitrofi sono secondi nella lista di
mete delle persone profughe; mentre il Nord globale, lontano geograficamente e
sempre più blindato, si trova nell’ultima posizione quanto a persone rifugiate
ricevute. Una parte di queste, cinque milioni di profughi interni e un milione
all’estero, sono ritornate ai loro Paesi di origine. Questa cifra mostra come
alcune crisi che provocano l’espulsione della popolazione possono rientrare. Il
caso del Kenya, secondo il rapporto, esemplifica uno sforzo dello Stato per
invertire l’esilio dei propri abitanti.
Infanzia segnata dall’esilio
La proporzione è sorprendente: l’infanzia
rappresenta meno di una persona su tre nel mondo, ma il 40% della popolazione
rifugiata. L’UNICEF denuncia le conseguenze profonde dello spostamento forzato:
dall’impedimento dell’istruzione fino ai danni alla salute mentale,
specialmente quando sono separati dalle loro famiglie.
Tale 40% si traduce in 47 milioni di bambine e
bambini profughi nel mondo. Secondo l’Agenzia per l’Infanzia delle Nazioni
Unite, se concentriamo lo sguardo sulla Spagna, terzo Paese dell’UE per
richieste di asilo, vediamo che quasi una su cinque riguarda ai minori,
aumentando sempre di più, fino a 163.220 nel 2023.
Una parte considerevole delle persone arrivate
in Spagna l’anno scorso, circa 40.000, hanno percorso la rotta delle Canarie,
dove sono già ampiamente raddoppiati gli arrivi nel corso del 2024 rispetto
agli stessi cinque mesi dell’anno precedente. Tra chi arriva all’arcipelago, si
trovano sempre più bambini e bambine. L’UNICEF denuncia che in molti casi non
richiedono la protezione internazionale, anche se ne hanno diritto, perché non
sono stati informati adeguatamente. Seppur molto grave, questo non è l’unico
problema affrontato dai minori che arrivano alle Canarie; la presenza di più di
5.600 bambini e bambine non accompagnate satura un sistema di protezione insufficiente.
Davanti a ciò, l’UNICEF chiede che, a prescindere dal considerare il minore
come possibile beneficiario di protezione internazionale, vanno agevolati i
trasferimenti alla penisola spagnola. Oltre a promuovere “rotte legali e
accessibili” per le famiglie, l’organizzazione internazionale invita ad
ascoltare bambini e bambine per capire le loro necessità.
Sudan, un Paese di espulsioni
Il Sudan rappresenta un esempio dolorosamente
chiaro di cosa porta la guerra nella vita delle persone e di quante volte esse
vengano spostate forzatamente. In questo caso, le stesse persone che hanno
sofferto le guerre per decenni, come quella in Darfur, sono state obbligate a
spostarsi, per com’è stato possibile, fino al Ciad, Paese limitrofo dove
risiede più di mezzo milione di sudanesi, in maggioranza donne e bambini, dato
che gli uomini sono stati assassinati o sono detenuti.
Insediatesi nella terra di nessuno, in zone
desertiche e isolate, queste donne dipendono totalmente dagli aiuti umanitari
per sopravvivere. Tuttavia, le risorse sono estremamente limitate: scarseggiano
sia gli alimenti che l’acqua, e il contesto favorisce i problemi sanitari.
Medici Senza Frontiere (MSF) raccoglie
testimonianze sulle svariate strategie che queste donne sono obbligate a
mettere in pratica per far sopravvivere le loro famiglie: nascondere
l’appartenenza a un’etnia, vestire i figli come bambine affinché non vengano
assassinati, o passare oltre i corpi dei vicini, caduti alle violenze delle
milizie. Inoltre, parlano di com’è doloroso vedere la vita traumatizzata dei
loro piccoli.
Negli accampamenti di rifugiati, dove molte
sudanesi vivono da quasi un anno, una delle donne dice: «Non ci uccidono ma non
abbiamo nulla da mangiare»
Tornare al luogo che si sono lasciate alle
spalle e recuperare la vita di prima è la prospettiva delle donne con cui ha
parlato l’organizzazione, poiché l’esistenza in un campo di rifugiati è dura e
non promette alcun futuro. Inoltre, ci sono le testimonianze di chi ha visto
morire assassinati i propri cari, o chi li vede spegnersi gradualmente in
seguito alla denutrizione.
Nella città di Al-Fashir, capitale del Darfur
Settentrionale e unico bastione rimasto nelle mani delle Forze armate sudanesi,
gli scontri con le rivali Forze di Supporto Rapido hanno provocato la chiusura
degli ultimi ospedali che rimanevano operativi, nel bel mezzo di una nuova onda
di profughi verso l’accampamento di Zamzam, solo a 15 chilometri dalla città,
dove già si trovano circa 300.000 persone afflitte dalla fame nera.
Alcune settimane prima, MSF aveva dovuto
chiudere l’ospedale operativo a Wad Madani, l’unico a disposizione delle
centinaia di migliaia di persone residenti nello Stato di Gezira. In aprile,
un’iniziativa di Sudan Witness Project ha indicato che almeno 72 villaggi e
insediamenti nell’ovest del Paese erano stati incendiati. Un attacco di massa
contro la popolazione che ha contribuito ad aumentare il flusso di profughi,
con persone obbligate ad andarsene per la seconda volta.
Né aiuti né soccorso
Meno cibo e più violenza, specialmente contro i
minori rifugiati. Questa è la situazione denunciata dall’organizzazione World
Vision, che ha studiato come la riduzione delle razioni di aiuti umanitari,
dovuta alla scarsità di fondi, genera fame e incide soprattutto sui piccoli,
che finiscono per confrontarsi con situazioni di violenza e abusi in un
contesto di penurie.
Il documento, intitolato “Tagli alle razioni”,
rivela che la diminuzione degli aiuti umanitari porta all’insufficienza
calorica. Per bambine e bambini, la mancanza di aiuti umanitari scatena
svariate vulnerabilità e abusi dei loro diritti. Sono obbligati a sposarsi o
lavorare e la loro salute mentale risulta deteriorata. Il taglio delle razioni
non è un’astrazione: la maggioranza delle persone intervistate per questo studio
erano passate dal preparare due pasti al giorno, a ridurli a uno o nessuno. E
quando non arriva il cibo, gli adulti sprofondano nello sconforto.
L’organizzazione afferma che la fame mette a rischio la salute mentale delle
persone.
Nemmeno per chi riesce a proseguire il proprio
cammino verso l’Europa attraverso il Mediterraneo c’è volontà umanitaria. Solo
le ONG dedicate al soccorso sono testimoni di che fine fanno centinaia di
persone espulse dai loro Paesi: affogate nel Mediterraneo davanti all’indifferenza
di un’Europa ossessionata dal blindare le frontiere a qualunque costo. Due
settimane fa, Médicos del Mundo e SOS Mediterranee, dopo aver localizzato i
corpi abbandonati in mare di 17 persone, hanno emesso un comunicato in cui
accusano «l’ipocrisia e l’inerzia [dei politici europei] al fermare le morti in
mare», che ha permesso un nuovo naufragio.
A un anno da quando 600 persone hanno perso la
vita nella costa greca, tragedia per la quale è stata segnalata la Guardia
costiera nazionale, sia per aver negato l’aiuto alle persone migranti, sia per
aver forse scatenato il disastro per negligenza, le organizzazioni di
salvataggio denunciano il continuo ritrovamento di cadaveri abbandonati in
mare. Sono la prova che l’Europa ha rifiutato di intervenire per evitare altre
morti, lasciando le navi di salvataggio come unica testimonianza di ciò che
succede nel Mediterraneo centrale.
Dopo essersi occupate di recuperare le vittime,
davanti all’inerzia dei guardacoste, le organizzazioni chiedono che almeno
vengano applicati i meccanismi forensi necessari per identificarle e che le
famiglie sappiano ciò che è successo ai loro cari.
E in Spagna?
Lo stato spagnolo è uno di quelli che approva
meno richieste di asilo, con il solo 12% di risoluzioni favorevoli mentre la
media europea arriva al 42%. Questo è indicato dalla CEAR [Commissione spagnola
di aiuto ai rifugiati, ndr] nel suo ultimo documento annuale. Numeri che
sembrano dimostrare la lontananza tra le politiche di asilo spagnole e la
situazione di aumento delle necessità di protezione individuabili nel mondo e
che, nel caso dello Stato spagnolo, si palesano con l’incremento di arrivi alle
Canarie dai Paesi con conflitti e tensioni in corso. La cifra degli arrivi
all’arcipelago raggiunge le 40.000 persone circa, ovvero il 70% del totale per
la Spagna. La CEAR qualifica tale situazione come emergenza umanitaria e
vorrebbe vedere una risposta tanto efficace quanto quella data alla crisi
ucraina.
Inoltre, denuncia che in termini di accoglienza
la risposta non è equiparabile a quella data all’emergenza in Ucraina: «Le
difficoltà di ottenere appuntamenti per iniziare la procedura di protezione,
assieme ai limiti di tempo relativi alla permanenza nei luoghi di assistenza
umanitaria, lasciano alcune persone in situazioni di carenza di protezione e a
rischio di esclusione sociale».
Nel documento, inoltre, l’organizzazione allude
alla crisi avvenuta nei centri di asilo di Barajas [a Madrid, ndr], che ha
implicato la violazione dei diritti di centinaia di persone ammucchiate in uno
spazio insalubre. Per di più, alla crisi quotidiana vissuta da migliaia di
persone che desiderano chiedere asilo nel Paese e non ci riescono per problemi
strutturali relativi all’assegnazione di appuntamenti – un problema che si
moltiplica anno dopo anno –, se ne aggiunge un’altra: il razzismo, che aggrava
le svariate violazioni all’accesso ai diritti basilari nei confronti delle
persone migranti e rifugiate. Il Patto di Migrazione e Asilo, approvato negli
scorsi mesi dall’Unione Europea, non mostra uno scenario ottimista.