venerdì 15 agosto 2025

                             

DOPO LO SCAMBIO DI PRIGIONIERI

CON GLI STATI UNITI

Caracas torna a riempire le sue carceri.

Trentini da 8 mesi in cella

 

Claudia Fanti

 

Sono al momento 59 i detenuti politici rilasciati dal governo Maduro – in tutto si dovrebbe arrivare a un’ottantina – contestualmente all’accordo raggiunto fra il segretario di Stato Usa Marco Rubio e il governo venezuelano per la liberazione di dieci cittadini statunitensi reclusi in Venezuela in cambio della scarcerazione di 252 migranti venezuelani illegalmente rinchiusi nel megacarcere salvadoregno Cecot (Centro di confinamento del terrorismo).

Un accordo, seguito a una lunga e complessa trattativa, celebrato con grande soddisfazione in Venezuela, dove il procuratore generale Tarek William Saab ha annunciato l’avvio di un’indagine contro il presidente salvadoregno Nayib Bukele e i suoi alti funzionari per il trattamento riservato ai 252 migranti deportati dagli Usa, i quali hanno denunciato torture, aggressioni fisiche e psicologiche e abusi sessuali.

Ma al sollievo dei prigionieri rilasciati si accompagna – e proprio nelle stesse ore – l’angoscia per nuovi arresti da parte del governo bolivariano: sarebbero almeno sette gli attivisti politici e sindacali fermati, tra cui il leader studentesco Simón Bolívar, il dirigente sindacale Fernando Serrano e Ángel Riva, marito della presidente del Collegio degli infermieri di Bolívar Maritza Moreno, ricercata dal governo per le sue denunce sulle condizioni degli ospedali in Guayana.

Secondo il Comitato per la libertà dei prigionieri politici e altre organizzazioni per i diritti umani, si tratterebbe di una «dinamica perversa di porta girevole», in cui al rilascio – dietro concessioni – di alcuni detenuti (peraltro con misure cautelari, dunque con il rischio di finire nuovamente dentro) segue l’arresto di altri, meglio ancora se di nazionalità straniera, da usare come future pedine di scambio. Sempre senza diritto alla difesa, senza accesso agli avvocati, senza contatto con i familiari. «È disumano – denuncia il Comitato – che la loro sofferenza venga utilizzata come strumento di negoziazione politica».

È la situazione anche di Alberto Trentini, il cooperante italiano detenuto a Caracas, nel carcere El Rodeo, da oltre otto mesi, con cui la famiglia – che non smette di denunciare il silenzio «insostenibile» del governo italiano – ha potuto parlare una sola volta, il 16 maggio. E di cui di recente ha dato notizie un ex detenuto svizzero, compagno di prigionia del cooperante veneto a El Rodeo, il quale, in un’intervista rilasciata ad Avvenire il 9 luglio, ha rassicurato sulle sue condizioni di salute ed esortato la famiglia a non perdere la speranza. «Alberto sta bene, fisicamente è a posto», ha dichiarato l’ex detenuto, raccontando però le «orribili» condizioni di prigionia in una struttura «fatiscente» e senza igiene, con appena «45 minuti d’aria tre volte a settimana», e riferendo di essere stato liberato grazie a una trattativa condotta dal ministero degli esteri svizzero: «“Ci è costata cara”, è l’unica cosa che mi hanno detto le autorità del mio paese». Ed è quello che chiede anche la famiglia di Trentini: che, cioè, come ha dichiarato la madre Armanda, «le nostre istituzioni dimostrino di avere a cuore la vita di un connazionale e si adoperino con urgenza ed efficacia per riportare a casa nostro figlio mettendo in campo qualsiasi strumento di diplomazia come è stato fatto in altri casi».     

Molti peraltro sono ancora gli stranieri detenuti in Venezuela: prima della liberazione dei dieci cittadini statunitensi, l’organizzazione Foro Penal aveva parlato di 85 persone. Tra loro anche l’ingegnere colombiano Manuel Tique Chaves, cooperante dell’ong danese Danish refugee council (Drc), per la quale anche Alberto aveva lavorato, dal febbraio del 2023 all’aprile del 2024.


da “Il Manifesto” del 23 luglio 2025