DOPO LO SCAMBIO DI PRIGIONIERI
CON GLI STATI UNITI
Caracas torna a riempire le sue carceri.
Trentini da 8 mesi in cella
Sono al
momento 59 i detenuti politici rilasciati dal governo Maduro – in tutto si
dovrebbe arrivare a un’ottantina – contestualmente all’accordo raggiunto fra il
segretario di Stato Usa Marco Rubio e il governo venezuelano per la liberazione
di dieci cittadini statunitensi reclusi in Venezuela in cambio della
scarcerazione di 252 migranti venezuelani illegalmente rinchiusi nel
megacarcere salvadoregno Cecot (Centro di confinamento del terrorismo).
Un accordo, seguito a una lunga e complessa
trattativa, celebrato con grande soddisfazione in Venezuela, dove il
procuratore generale Tarek William Saab ha annunciato l’avvio di un’indagine
contro il presidente salvadoregno Nayib Bukele e i suoi alti funzionari per il
trattamento riservato ai 252 migranti deportati dagli Usa, i quali hanno
denunciato torture, aggressioni fisiche e psicologiche e abusi sessuali.
Ma al sollievo dei prigionieri rilasciati si
accompagna – e proprio nelle stesse ore – l’angoscia per nuovi arresti da parte
del governo bolivariano: sarebbero almeno sette gli attivisti politici e
sindacali fermati, tra cui il leader studentesco Simón Bolívar, il dirigente
sindacale Fernando Serrano e Ángel Riva, marito della presidente del Collegio
degli infermieri di Bolívar Maritza Moreno, ricercata dal governo per le sue
denunce sulle condizioni degli ospedali in Guayana.
Secondo il Comitato per la libertà dei prigionieri
politici e altre organizzazioni per i diritti umani, si tratterebbe di una
«dinamica perversa di porta girevole», in cui al rilascio – dietro concessioni
– di alcuni detenuti (peraltro con misure cautelari, dunque con il rischio di
finire nuovamente dentro) segue l’arresto di altri, meglio ancora se di
nazionalità straniera, da usare come future pedine di scambio. Sempre senza
diritto alla difesa, senza accesso agli avvocati, senza contatto con i familiari.
«È disumano – denuncia il Comitato – che la loro sofferenza venga utilizzata
come strumento di negoziazione politica».
È la situazione anche di Alberto Trentini, il
cooperante italiano detenuto a Caracas, nel carcere El Rodeo, da oltre otto
mesi, con cui la famiglia – che non smette di denunciare il silenzio
«insostenibile» del governo italiano – ha potuto parlare una sola volta, il 16
maggio. E di cui di recente ha dato notizie un ex detenuto svizzero, compagno
di prigionia del cooperante veneto a El Rodeo, il quale, in un’intervista
rilasciata ad Avvenire il 9 luglio, ha rassicurato sulle sue condizioni di
salute ed esortato la famiglia a non perdere la speranza. «Alberto sta bene,
fisicamente è a posto», ha dichiarato l’ex detenuto, raccontando però le
«orribili» condizioni di prigionia in una struttura «fatiscente» e senza
igiene, con appena «45 minuti d’aria tre volte a settimana», e riferendo di
essere stato liberato grazie a una trattativa condotta dal ministero degli
esteri svizzero: «“Ci è costata cara”, è l’unica cosa che mi hanno detto le
autorità del mio paese». Ed è quello che chiede anche la famiglia di Trentini:
che, cioè, come ha dichiarato la madre Armanda, «le nostre istituzioni
dimostrino di avere a cuore la vita di un connazionale e si adoperino con
urgenza ed efficacia per riportare a casa nostro figlio mettendo in campo
qualsiasi strumento di diplomazia come è stato fatto in altri casi».
Molti peraltro sono ancora gli stranieri detenuti in
Venezuela: prima della liberazione dei dieci cittadini statunitensi,
l’organizzazione Foro Penal aveva parlato di 85 persone. Tra loro anche
l’ingegnere colombiano Manuel Tique Chaves, cooperante dell’ong danese Danish
refugee council (Drc), per la quale anche Alberto aveva lavorato, dal febbraio
del 2023 all’aprile del 2024.