Un appello, una dichiarazione di obiezione,
una lettera aperta ai potenti:
per contrastare rassegnazione e fatalismo
di fronte a guerre e genocidi
Pierpaolo Loi
L’Appello di Suor Giovanna della comunità della Piccola Famiglia
dell’Annunziata di Ma’in (Giordania), vicino al confine con la Cisgiordania.
Appello accorato, ripetuto più volte: «Le notizie che arrivano sono ogni giorno
più dolorose, più atroci. Ieri sera Netanyahu ha approvato un nuovo
attacco su Gaza, per “distruggere tutto”. Io non ce la faccio più a restare
ferma. La mia coscienza mi tormenta, perché questo restare inerti – questo non
fare nulla – ci rende complici. Complici di un genocidio».
Contro la rassegnazione che sfocia nel fatalismo del “tanto non serve a nulla”,
suor Giovanna invita a «… credere che ogni gesto di verità, ogni preghiera
pubblica, ogni appello sincero possano rompere l’assuefazione, risvegliare le
coscienze e forse anche spingere chi ha potere a muoversi. Non possiamo cedere
alla logica dell’impotenza. Non possiamo tacere».
L’appello di suor Giovanna è anche un rimprovero aperto all’inedia delle
comunità religiose di fronte al genocidio in atto a Gaza: «Mi addolora
profondamente vedere una Chiesa quasi silente. Non mi do pace al pensiero
che da parte delle comunità religiose non sia nata alcuna iniziativa concreta».
Per Suor Giovanna, non ci sono ragioni che possano determinare questo silenzio:
«Ma oggi, davanti a una tragedia di queste proporzioni, non c’è nulla di più
scandaloso del silenzio religioso […] Ma non può esserci neutralità davanti a
un genocidio. O si è complici, o si sceglie la verità. E oggi, la verità
urla dalle macerie di Gaza».
L’appello insiste sul fatto che bisogna essere presenti, come comunità
religiose, là dove le persone soffrono; non basta “dirsi in preghiera”, ci
vogliono gesti concreti: «E allora, forse è arrivato il momento di mettere il
nostro corpo accanto a quello crocifisso dell’umanità. Non possiamo restare
lontani dal pianto degli innocenti».
Alcune sue proposte: radunare religiosi e religiose e andare a Roma, davanti al
Quirinale, restare in preghiera giorno e notte; chiedere che il governo
italiano interrompa ogni vendita d’armi a Israele e gli accordi economici.
Radunarsi in Piazza San Pietro e chiedere al Papa di «– di andare a Gaza; – di
condannare pubblicamente Israele; – di lanciare appelli incessanti perché i
Paesi occidentali si mobilitino per fermare il genocidio».
La Dichiarazione di Ayana Gerstmann
Il 31 luglio scorso Ayana Gerstmann e Yuval Peleg, due giovani diciottenni
israeliani hanno pubblicamente rifiutato il servizio militare obbligatorio
nelle forze di occupazione. Ayana ha letto una dichiarazione che spiega le
motivazioni del rifiuto, la cui conseguenza è un periodo di pena da scontare in
carcere. Nella dichiarazione ripercorre gli anni della sua formazione: è
cresciuta in una famiglia che ritiene immorale il comportamento dell’esercito
israeliano nei confronti dei palestinesi; a scuola, ha avuto una formazione
nazionalistica che culmina con l’annuale “cerimonia della Giornata di
Gerusalemme”. In quinta elementare, una ricerca sui luoghi importanti di
Gerusalemme, in preparazione del Yerusalem Day, cambia la sua prospettiva.
Afferma Ayana: «Oggi mi è chiaro che l’obiettivo di quel compito era rafforzare
le mie tendenze nazionalistiche, ma il risultato fu l’opposto. Lessi di
Gerusalemme Est e per la prima volta ne venni a conoscenza, così come era
descritta nel sito web di B’Tselem. […] Improvvisamente mi si aprirono gli
occhi su ciò che si nascondeva dietro le celebrazioni dell’orgoglio nazionale a
cui avevo partecipato un anno prima: l’occupazione e l’oppressione.
Improvvisamente, e in un attimo, mi resi conto della profonda sofferenza di
milioni di persone, di cui prima non sapevo nemmeno l’esistenza, la cui libertà
viene schiacciata giorno dopo giorno, ora dopo ora, dal regime di occupazione.
Da quel momento, è cresciuta in me la consapevolezza che non potevo assolutamente
essere un ingranaggio del sistema militare […]. Non voglio far parte di un
sistema che espelle sistematicamente intere comunità, uccide innocenti e
permette ai coloni di appropriarsi delle loro terre».
Un cammino di consapevolezza che ha determinato la decisione a 18 anni di
rifiutare il servizio militare: «Da due anni vedo spargimenti di sangue come
risultato di una guerra di vendetta senza speranza. Vedo decine di migliaia di
bambini di Gaza che nascono e crescono in una disperazione senza fine, nella
morte e nella distruzione che costituiscono un circolo vizioso di odio,
vendetta e omicidio».
La consapevolezza è a tutto campo, non legata agli eventi del 7 ottobre 2023.
Dice Ayana: «La società israeliana assiste all’occupazione da sessant’anni e
chiude gli occhi. La società israeliana assiste all’uccisione dei bambini di
Gaza nei bombardamenti e chiude gli occhi. La società israeliana assiste alle
peggiori atrocità morali commesse dall’esercito e decide di tacere».
Ayana accusa la società israeliana di non voler guardare in faccia alla propria
immoralità e di giustificare l’ingiustificabile: «Durante tutta la guerra ho
sentito innumerevoli volte la frase “non ci sono innocenti a Gaza” e ne sono
indignata. Sento che questa frase viene normalizzata sempre di più. Vedo
persone che credono con tutto il cuore che anche i bambini più piccoli di Gaza
non siano innocenti e che quindi non riceveranno alcuna pietà».
La scelta dell’obiezione al servizio militare è la conseguenza del suo aprire
gli occhi: «Ecco perché so che se decidessi di rimanere in silenzio ora che
sono consapevole delle sofferenze inflitte a milioni di persone dall’esercito,
sarei complice del crimine. […]. E oggi so che arruolarsi nell’esercito è
peggio del silenzio: è cooperare con un sistema che sta facendo del male a
milioni di persone. Ecco perché mi rifiuto, e lo faccio a voce alta. Non
collaborerò e non farò parte del silenzio che permette che le peggiori atrocità
siano commesse a nome mio. Come cittadina di questo Paese dico chiaramente: la
distruzione di Gaza – non a nome mio! L’occupazione – non a nome mio!».
La Lettera del Cardinale e Arcivescovo di Napoli, Domenico Battaglia
«Il Vangelo – per chi crede e per chi non crede – è uno specchio impietoso:
riflette ciò che è umano, denuncia ciò che è disumano». È lapidario,
l’Arcivescovo; nella lettera aperta ai potenti della Terra riecheggia il
linguaggio degli antichi profeti, di Isaia e Geremia. «Se un progetto schiaccia
l’innocente, è disumano. Se una legge non protegge il debole, è disumana. Se un
profitto cresce sul dolore di chi non ha voce, è disumano».
Si rivolge a coloro che si dimostrano incapaci di porre fine alla guerra:
«E voi che sprofondate nelle poltrone rosse dei parlamenti, abbandonate dossier
e grafici: attraversate, anche solo per un’ora, i corridoi spenti di un
ospedale bombardato; odorate il gasolio dell’ultimo generatore; ascoltate il
bip solitario di un respiratore sospeso tra vita e silenzio, e poi sussurrate –
se ci riuscite – la locuzione “obiettivi strategici”».
Gli invita a non chiudere gli occhi: «Quando i cieli si riempiono di missili,
guardate i bambini che contano i buchi nel soffitto invece delle stelle.
Guardate il soldato ventenne spedito a morire per uno slogan. Guardate i
chirurghi che operano al buio in un ospedale sventrato. Il Vangelo non accetta
i vostri comunicati “tecnici”. Scrosta ogni vernice di patria o interesse e ci
lascia davanti all’unica realtà: carne ferita, vite spezzate».
Smaschera l’ipocrisia di un linguaggio che nasconde gli orrori della guerra:
«Non chiamate “danni collaterali” le madri che scavano tra le macerie. Non
chiamate “interferenze strategiche” i ragazzi cui avete rubato il futuro. Non
chiamate “operazioni speciali” i crateri lasciati dai droni».
Non è necessario implicare il nome di Dio, basta un poco di onestà e vergogna e
ascoltare la coscienza: «[…] la guerra è l’unico affare in cui investiamo la
nostra umanità per ricavarne cenere. Ogni proiettile è già previsto nei fogli
di calcolo di chi guadagna sulle macerie. L’umano muore due volte: quando
esplode la bomba e quando il suo valore viene tradotto in utile».
Il ripudio della guerra è totale: «Finché le armi detteranno l’agenda, la pace
sembrerà follia. Perciò, spegnete i cannoni. Fate tacere i titoli di borsa che
crescono sul dolore. […] Tutto il resto – confini, strategie, bandiere gonfiate
dalla propaganda – è nebbia destinata a svanire. Rimarrà solo una domanda: “Ho
salvato o ho ucciso l’umanità che mi era stata affidata?”».
Infine, l’appello alla conversione dei potenti: «Convertite i piani di
battaglia in piani di semina, i discorsi di potenza in discorsi di cura. Sedete
accanto alle madri che frugano tra le macerie per salvare un peluche:
scoprirete che la strategia suprema è impedire a un bambino di perdere l’infanzia.
Portate l’odore delle pietre bruciate nei vostri palazzi: impregni i tappeti,
ricordi a ogni passo che nessuno si salva da solo e che l’unica rotta sicura è
riportare ogni uomo a casa integro nel corpo e nel cuore».
L’appello, inoltre, a tutti noi, a non arrenderci perché le cose si cambiano
coi gesti quotidiani: «La pace germoglia in salotto – un divano che si allunga;
in cucina – una pentola che raddoppia; in strada – una mano che si tende. Gesti
umili, ostinati: “tu vali” sussurrato a chi il mondo scarta. Il seme di senape
è minimo, ma diventa albero. Così il Vangelo: duro come pietra, tenero come il
primo vagito. Chiede scelta netta: costruttori di vita o complici del male.
Terze vie non esistono».
“Pressenza”, 19.08.25