martedì 28 ottobre 2025

Elena. Perché a chi si suicida in cella va restituito un nome


di Antonio Maria Mira 

Avvenire 25/10


Aveva 26 anni la 60esima persona che si è tolta la vita dietro le sbarre in questo anno tragico. Era detenuta a Sollicciano, in provincia di Firenze.

Lo scorso 7 settembre le agenzie di stampa danno la notizia di un suicidio nel carcere fiorentino di Sollicciano. Il 60° suicidio in un carcere italiano dall’inizio dell’anno, un anno drammaticamente da record, il terzo in quello di Sollicciano. Si legge che si tratta di una donna di 26 anni. Niente di più. Come quasi sempre accade per i suicidi in carcere. Solo un numero in più, come ha deciso di morire, solo quel momento, niente sul prima, nessuna storia, nessun perché sulla drammatica scelta. Come se quel gesto, quella cella, potessero rappresentare tutta una vita. Il carcere ti toglie tutto, non solo la libertà. Ma, come dice il fondatore del Gruppo Abele e di Libera, don Luigi Ciotti, che proprio in carcere ha cominciato il suo impegno, «il primo diritto di una persona è quello al proprio nome». Così nei giorni successivi scopro sui social che la ragazza si chiamava Elena Gurgu, rumena, arrivata in Italia ad appena 14 anni. Piena di speranza e di vita, ma la sua è stata una vita allo sbando tra droga, prostituzione, sfruttamento e carcere. La prima volta a 17 anni. E poi tanto corpo in vendita, per strada, sotto i ponti. Per italianissimi clienti pronti a comprarlo. E per strada anche dormiva. Ha un figlio che le viene tolto, come spesso accade a donne sbandate e sole come lei. Ma dopo quella decisioni lei sta sempre peggio. Sola, sempre più sola. Non riesce a stare neanche in comunità dove viene mandata in alternativa al carcere. Ma la cella si richiude per lei un anno fa, accusata dell'aggressione a un pensionato. Perché il crack, la terribile droga a prezzi stracciati ti straccia la vita, ti rende zombie, incoscienti e violenti. Ma Elena, quella vera, non quella «fumata», non è così. In carcere sembra pian piano riacquistare fiducia, grazie a operatori e volontari.

«Era una ragazzina alla ricerca disperata di affetto. Per tutta la vita si è sentita rifiutata», ricordano. Il carcere può essere l’occasione, grazie a persone che le vogliono bene. Così scopre il teatro, si diverte in cucina imparando i piatti toscani, partecipa alla messa. C’è chi scommette su di lei, su questa ragazzina diventata troppo presto donna e finita nel buio della solitudine. Forse Elena vede una luce, sembra serena, dicono ora i volontari. Il giorno prima di suicidarsi scherza con la compagna di cella facendole le trecce. In realtà non ha retto. Il carcere è sempre carcere e lei ci deve stare altri 4 anni. Così si impicca appesa con un lenzuolo al balconcino della cella. Sul muro lascia scritta una frase «Elena vi saluta». Il suo nome, la sua identità. Rivendicata fino all’ultimo. Al funerale solo 8 persone, operatori, volontari e il cappellano del carcere don Stefano Casamassima che così si rivolge a lei: «Qui attorno a te ci sono alcune persone che hanno saputo vedere il tuo desiderio di vita e di felicità, adesso siamo qui per affidarti al Padre, che conosce da sempre la tua dignità». Pochi ma veri amici per Elena, fantasma in vita e fantasma in morte. «Non notiziabile», diciamo noi giornalisti nel nostro crudo linguaggio. Ma è davvero così? Deve essere proprio così? Nessuna parola per i suicidi in carcere? Un morto in più - sempre se ce ne vogliamo accorgere - e si volta pagina. Invece «il carcere continua ad essere un luogo di disperazione per i detenuti e le detenute costretti in condizioni troppo spesso disumane e inaccettabili», è stato il commento dell’arcivescovo di Firenze, Gherardo Gambelli che lancia un appello: «Torniamo a chiedere un impegno concreto, che alle parole seguano i fatti, perché le carceri siano veri luoghi di educazione, di riscatto, di speranza e non di morte». Intanto i suicidi in carcere sono saliti a 65, ma sempre nessun nome, nessuna storia. In gran parte giovani, ventenni, l’età della speranza non della morte, di una vita davanti non di una vita da chiudere. Invece ci salutano e se ne vanno. Come Elena.