giovedì 6 novembre 2025

da Confronti di ottobre 2025

I peggiori anni della nostra vita

di Paolo Naso 


Senza averne coscienza, sin qui noi figli del baby boom italiano degli anni Cinquanta abbiamo vissuto in una bolla di privilegi e di sicurezze. Dal primo giorno di scuola ci hanno insegnato che vivevamo in un’era di pace, illuminata da un progresso potenzialmente illimitato e garantita da un efficace sistema di deterrenza. Crescendo, abbiamo capito che il mondo era meno roseo di come ce lo descrivevano i nostri sussidiari, con le immagini rassicuranti di Gandhi, Martin Luther King, papa Giovanni XXIII e John F.Kennedy. Negli anni, la disillusione per quel racconto irenico si è fatta sempre più acuta e, di fronte alle immagini in bianco e nero che ci arrivavano dal Vietnam, abbiamo capito che la guerra continuava a essere una variante della politica. Ormai adulti, abbiamo provato il terrore del piombo di anni orribilmente violenti e abbiamo visto altre guerre. Reagimmo con grandi mobilitazioni pacifiste la cui memoria sopravvive nelle bandiere arcobaleno che conserviamo in qualche cassetto. E oggi sentiamo il peso di un’illusione e di un fallimento che si fa doloroso e angosciante di fronte ai drammi che ci consumano nell’Est dell’Europa e in Medio Oriente. 

La seconda Nakba palestinese. Il termine Nakba sta per “catastrofe” e fu usato per indicare la sconfitta araba del 1948 e gli effetti che essa produsse su milioni di palestinesi costretti ad abbandonare le loro case e le loro antiche proprietà per andare a vivere nei campi profughi, in West Bank, in Giordania, in Libano e altrove. Nakba è più di una sconfitta, è l’azzeramento di una storia, di una presenza, di qualsiasi progetto. 

Ed è esattamente quello che è accaduto con le operazioni militari israeliane che non hanno neanche provato a risparmiare civili, bambini, malati, gente affamata che si avvicinava al cibo. La Nakba segna anche il fallimento politi- co della leadership palestinese, affidata a fondamentalisti violenti e nichilisti nella Striscia, e a un’élite ormai delegittimata e spesso corrotta in Cisgiordania. 

Il suicidio di Israele. È il titolo di un libro della storica Anna Foa che, analizzando la strategia israeliana del dopo 7 ottobre, vede la fine di un progetto politico democratico che, per quanto carico di contraddizioni e troppo idealizzato, almeno sino agli anni Novanta si è pensato com- patibile con il riconoscimento dei diritti dei palestinesi e di un loro Stato sovrano. Poi l’ondata del nazionalismo religioso ha sommerso ogni cosa e ha minato l’anima democratica dello Stato. Anziché cercare tra i suoi vicini alleanze che ne rafforzino la sicurezza, oggi Israele costruisce e moltiplica i suoi nemici, accecato da una potenza militare che crede sconfinata e da un sostegno politico americano pressoché illimitato. Anziché dare forza al progetto dei “due popoli e due Stati” sostenuto dalla comunità internazionale, Netanyahu si vanta di avere definitivamente cancellato questo architrave della pace in Medio Oriente. Si avvera così il peggiore degli incubi: un piccolo Paese isolato e dipendente, Israele, circondato da vicini ostili che, magari per i loro interessi nazionali e non per quelli dei palestinesi, tenderanno a isolarlo e minacciarlo. 

Il fondamentalismo che vince. Ha vinto con l’islamismo radicale che ha marchiato a sangue il 7 ottobre 2023, forse nella folle intenzione di innescare una nuova guerra globale in Medio Oriente. Ha vinto mobilitando i coloni ebrei e i loro sostenitori politici che occupano nuovi territori e ipotizzano l’annessione della Cisgiordania; ha vinto tra gli evangelical americani che, guardando alla Bibbia più come a un libro di Nostradamus che alla parola di un Dio di giustizia e di amore, profetizzano che le sciagure di cui siamo testimoni, e di cui i palestinesi sono vittime, aprono le porte al radioso ritorno del Messia. 

La fine del diritto internazionale. Era stata l’utopia del secondo Dopoguerra: l’idea che una nuova governance sovranazionale potesse difendere la pace e risolvere i conflitti tra gli Stati ma che oggi, alla prova dell’attacco russo all’Ucraina e dell’occupazione israeliana di Gaza, mostra sepolcri imbiancati, burocrazie mute e impotenti. Siamo indignati, certo, persino pronti a mobilitarci, ma non sarà la nostra generazione a cambiare il corso della storia di questi anni. Per questo guardiamo carichi di speranza a chi si imbarca con la Global Sumud Flotilla; per questo riteniamo preziose le testimonianze di quanti, anche tra gli israeliani e i palestinesi, cercano di costruire una strada di dialogo e ragionevolezza; per questo cerchiamo di raccogliere tutte le forze che abbiamo per difendere le ragioni della pace e del diritto. Ci proviamo, ci dobbiamo provare, ma era ben altro il mondo che sognavamo e cantavamo quando eravamo giovani.