giovedì 11 settembre 2008

ASCOLTA ISRAELE...

Commento alla lettura biblica - domenica 14 settembre 2008

Questa settimana vi propongo non un mio commento al capitolo di Matteo, ma la predicazione che il pastore valdese Paolo Ribet svolse all'inizio del Sinodo delle chiese valdo-metodiste. Credo che possa davvero nutrire chi la legge e possa essere presa come predicazione domenicale in parrocchie, gruppi, comunità.



Ascolta, Israele: Il SIGNORE, il nostro Dio, è l'unico SIGNORE. Tu amerai dunque il SIGNORE, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima tua e con tutte le tue forze. Questi comandamenti, che oggi ti do, ti staranno nel cuore; li inculcherai ai tuoi figli, ne parlerai quando te ne starai seduto in casa tua, quando sarai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, te li metterai sulla fronte in mezzo agli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle porte della tua città (Deut. 6:4-9).


1.- «Shema’ Israel … Ascolta Israele», con queste parole, tratte dal libro del Deuteronomio, si apre la preghiera che il pio ebreo recita ancora oggi, due volte al giorno, in una secolare ripetizione che da un lato ha marcato la fede di un popolo, orientandola verso un centro, un perno attorno a cui ruota tutto il resto e d’altro lato, proprio attraverso la ripetizione, ha marcato la coscienza di generazioni intere di credenti. «Non c’è dubbio, scrive un commentatore, che lo Shema’ costituisca il centro teologico del libro del Deuteronomio: queste poche parole concentrano il carattere del Dio di Israele su un punto singolo: Yahvé, il Signore, è uno solo. Ed allo stesso modo esse concentrano su un’unica affermazione la risposta, fondata sul Patto, appropriata per questa caratteristica di Dio: che Israele ami in modo totale il Signore».

Del resto, a ben vedere, quella di Deuteronomio 6 non è neanche una preghiera, per lo meno nel senso in cui tale parola è intesa comunemente; ma è piuttosto la professione di fede che accompagna l’ebreo dalla sua più tenera età fino al momento in cui esala l’ultimo respiro. Certo, la prima parola è: "Ascolta"; e si potrebbe pensare che questa sia un’invocazione a Dio per chiedergli ascolto, attenzione, per implorarlo che siano esaudite le preghiere e le suppliche. Ma è vero il contrario: abbiamo qui un ordine perentorio che Dio stesso rivolge al suo popolo perché tenga sempre presente la sua volontà, espressa dapprima nel patto di salvezza e poi attraverso il dono della sua legge. Lo Shema’ non è dunque una dichiarazione di Israele, bensì la proclamazione della volontà di Dio ad Israele. In questo senso, dicevamo, non è neanche una preghiera.

E’ significativo, allora che queste parole si aprano con l’esortazione forte all’ascolto. Ascoltare l’altro non significa, infatti, soltanto sentirne le parole, non lasciarle sfuggire, ma significa qualcosa di più grande e profondo: significa aprirsi all’altro, partecipare del suo progetto. Solo di lì può nascere un dialogo fecondo. Nel caso del rapporto con Dio, ascoltare significa far propria la sua volontà nella nostra realtà quotidiana. Per questo occorre ripetersi queste parole del continuo, perché compiere la volontà di Dio non è affatto semplice – e dunque è necessario compiere un atto di sottomissione. Per dirla coi rabbini antichi, bisogna "farsi carico del liberatorio giogo della sua parola e della sua legge".

2.- Questo riferimento all’ascolto è particolarmente importante, nel nostro tempo, perché viviamo un’epoca in cui è necessario ripensare il nostro modo di essere, il nostro modo di porci nei confronti del mondo in cui siamo inseriti – ed è proprio dall’ascolto e dal confronto con la realtà che noi possiamo tentare di incarnare la Parola di cui siamo portatori.

In secondo luogo questa esortazione è quanto mai attuale, perché l’espressione: «Bisogna ascoltare … Noi ascoltiamo le esigenze e le domande della gente…», è stata una delle parole d’ordine che abbiamo sentito più spesso negli ultimi mesi, nel nostro Paese. Soprattutto dopo le elezioni di aprile, una parte politica ha rimproverato l’altra parte di non essere stata capace di ascoltare le esigenze e le preoccupazioni della gente, i suoi bisogni reali – e pertanto di aver perso le elezioni. Ma non esiste un modo solo di ascoltare le esigenze della gente. Ci sono molti modi di ascoltare.

Per quello che io riesco a vedere, il modo più facile ed immediato è quello di cogliere i sentimenti di incertezza e di angoscia, titillare le paure della gente, dando risposte visibili, che colgano la fantasia, come può essere l’individuazione di un nemico (il diverso) e l’invio dell’esercito per le strade contro la microcriminalità. I problemi esistono, e sarebbe folle negarli; ma si tratta, a mio parere, di una "non risposta" perché le paure, se sono dentro di noi, semplicemente si sposteranno da un oggetto all’altro. Le notti sono sempre buie, quando si ha paura.

Vi è allora un altro tipo di risposta, più difficile, più lunga da attuare ed è quella di tentare di andare al fondo delle questioni, cercando i motivi profondi delle paure e del disorientamento che sono alla base di fondo delle questioni, cercando i motivi profondi delle paure e del disorientamento che sono alla base di molti comportamenti aggressivi, che mi sembrano essere la cifra e il segno che qualificano il vero problema del nostro tempo e del nostro Paese. Uno spunto per questa riflessione mi è stato dato da un articolo che ho letto di recente, in cui Joaquin Navarro-Vals (che è stato per anni il responsabile della Sala Stampa del Vaticano), partendo dalle parole pronunciate dal papa sulla guerra del Libano, faceva notare che, nel suo discorso, «Benedetto XVI ha semplicemente fatto rilevare (diversamente dalle analisi della diplomazia delle grandi potenze mondiali) che la vera spinta al conflitto riguarda più la paura di perdere la propria identità che il desiderio di difenderne una dalla minaccia del nemico …

D’altra parte, oggi in tutto il mondo ciò che spinge sempre più spesso i popoli alla guerra civile non è tanto la difesa di un’identità, quanto piuttosto la paura di non averne più alcuna». Il problema, allora, non è quello di costituire un governo solido, che governi popoli disomogenei, «ma il disinnesco della paura profonda che spinge gruppi di persone ad armarsi e a ricercare in modo radicale la propria identità, distruggendo la vita degli altri». Se noi vogliamo veramente ascoltare la gente e le sue paure, dobbiamo metterci in cammino verso la costruzione di una nuova cultura di relazione fra i popoli e le persone. Poi potremo discutere sulle tappe intermedie, ma la meta può essere soltanto la costruzione di questa cultura.


3.- Già, la cultura. Nel nostro Sinodo discuteremo della cultura. E’ un tema non facile, perché "cultura" è un concetto dai contorni piuttosto labili, di difficile definizione – e poi perché il nostro Paese investe pochissimo sulla cultura e perché la cultura viene massificata (verso il basso). E soprattutto, per quel che ci riguarda più da vicino, il nostro Paese non ha una cultura teologica. Esistono, è vero, iniziative molto belle, che spesso vengono marginalizzate, semplicemente ignorate o riservate a piccole nicchie di persone, mentre per la massa Padre Pio viene distribuito a piene mani.

Come si può dunque parlare di cultura? Da dove si deve partire? La prima risposta che viene in mente è che dovremmo partire dal bagaglio di idee e di tradizioni di cui il protestantesimo è portatore. Ma temo che sarebbe un errore.

Qui torniamo al nostro testo biblico: è l’ascolto che è il principio della cultura. Nostro compito è cercare di cogliere le istanze fondamentali, le domande profonde della gente. Per poter dialogare, bisogna almeno tentare di comprendere l’altro, mentre troppo spesso noi pensiamo di avere le risposte, ma raramente teniamo conto di quelle che sono le domande. Vi è dunque la necessità del dialogo con la cultura attorno a noi – o, meglio, con le culture, visto che non possiamo pensare che l’unica cultura con diritto di cittadinanza sia quella occidentale. Ma il nostro ascolto e la nostra prospettiva non possono essere soltanto indirizzate verso il dibattito salottiero delle idee, perché altre voci si levano e chiedono di essere ascoltate.

Noi pensiamo di sapere ciò che è importante per gli altri e di saper indicare la strada giusta. Ma spesso "gli altri" hanno priorità diverse. Voglio fare un esempio: nel dialogo ecumenico, noi contestiamo ai cattolici il papato, il sacerdozio e la transustanziazione; ma poi, dalle loro reazioni ci rendiamo conto che per loro si tratta di realtà secondarie – per lo meno rispetto al modo in cui le poniamo noi – e questo ci irrita molto.

Noi ripetiamo i temi della Riforma o delle polemiche ottocentesche, ma oggi per i cattolici (almeno: per alcuni cattolici) i temi fondamentali sono altri. In una vignetta di tanti anni fa, leggevo una battuta che, con tutti i limiti di una barzelletta, leggeva molto bene questa situazione. Su un muro era scritto: "Cristo è la risposta" ed il protagonista si domandava: "Si, ma qual è la domanda?". Ecco, spesso noi pensiamo di possedere la risposta, senza porci il problema di conoscere la domanda.


Affrontare un dibattito sulla cultura significa dunque innanzitutto porsi in ascolto delle domande e delle inquietudini profonde del nostro tempo.

4.- «Ascolta, Israele…», ascolta, dunque, il tuo tempo, la gente che vive attorno a te per coglierne le ansie più profonde. Ma per avere una parola significativa da portare in questa situazione, tu, Israele, Popolo di Dio, non puoi soltanto fare delle analisi (per quanto corrette) e non puoi neanche proporre dei progetti o seguire le ultime mode o le tendenze che vengono proposte. Se vuoi avere una parola significativa, che porti pace e salvezza, devi ascoltare in primo luogo il tuo Signore. E’ lì, nella sua Parola che puoi trovare la tua parola, è nei suoi progetti che puoi trovare i tuoi progetti. Non è facile farsi carico del "giogo del Regno di Dio" (come lo chiamavano gli antichi rabbini), per questo bisogna tornare costantemente ad esso, bisogna che diventi la pietra di paragone di ogni nostra speranza e di ogni nostra volontà.

Avete notato che, subito dopo aver chiamato il popolo all’ascolto, all’apertura verso il Signore, e subito dopo aver proclamato che il Signore è il solo Dio che non ammette la vicinanza di altre signorie, siano esse mitiche, ideologiche o storiche, il nostro testo non ci chiede di obbedire a Dio, ma di amarlo. E’ la profondità del rapporto che cambia, è la sua natura stessa. Amare porta all’obbedienza, ma ne cambia le motivazioni. I comandamenti di Dio, i suoi insegnamenti, la sua volontà, segneranno il mio cammino non perché ho paura del castigo, ma perché mi sento profondamente coinvolto nella sua realtà, è il motore stesso della mia azione. «Non son più io che vivo, diceva Paolo, ma è l’amore di Dio che ho conosciuto in Cristo che vive in me». Per questo ripeterò ogni giorno la promessa di fede, per questo insegnerò ai miei figli a vivere la legge, per questo la scriverò sulle porte di casa e delle città, come segno della volontà di fedeltà di un popolo intero.

5.- Sarò capace di portare avanti un progetto così ambizioso? Prima di lanciarmi in proclami avventati, sarà bene fare anche un esame personale: «Chiesa di Dio, ascolta te stessa», ascolta per capire quali sono i tuoi reali progetti, e la tua reale volontà. Per comprendere quali sono le tue paure ed i tuoi punti di forza. Nelle ultime due generazioni, la Chiesa Valdese ha vissuto almeno due fasi molto diverse: una fase di arroccamento ed una fase di apertura.

ARROCCAMENTO – è stata la scelta operata della Chiesa Valdese tra le due guerre che ha dato vita a comunità forti ma chiuse: forte identità, forte coesione e forti contrapposizioni. Ma quel mondo chiuso e contadino su cui poggiava quel progetto non esiste più!

O APERTURA? Questa sembra essere stata la scelta operata dopo la guerra con l’apertura al mondo (politica), alle altre chiese (ecumenismo) o alle altre culture o religioni (globalizzazione). Agape è stato il simbolo di questa generazione. E Tullio Vinay diceva che Agape doveva essere "una piazza", dove si incontra di tutto.

Il rischio in questa fase è quello di perdere la propria identità e di sentirsi disorientati se non si hanno dei confini certi e sicuri. Le nostre comunità sono certamente più aperte, ma sono anche molto più piccole e più fragili. Si cammina sulla lama di un coltello fra ricerca di identità ed apertura all’altro e soltanto chi è forte, forte nel suo rapporto con Dio, può affrontare un simile percorso. Ebbene, piccola Chiesa di Gesù Cristo, ascolta te stessa, per capire se hai la forza ed il coraggio di compiere un viaggio così difficile.

6.- Ma qualunque cosa tu scelga, piccola Chiesa di Gesù Cristo, non potrai rimanere ripiegata su te stessa, perché il Signore che ami e con il quale vuoi vivere non si è mai ripiegato su se stesso, in una visione beatifica della sua santità. Il Dio che ti chiama all’ascolto è colui che a sua volta ha ascoltato, che non è rimasto sordo al grido di dolore che sale dalla terra:
- Ha ascoltato il grido della terra bagnata dal sangue di Abele,
- Ha ascoltato il lamento di Israele schiavo in Egitto,
- Ha ascoltato il grido di Rachele che piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più.

Non possiamo far finta di non sentire il lamento che corre nel mondo, dal Sud Africa, dove è in atto una terribile caccia all’immigrato, all’Italia, dove vediamo cose che pensavamo di non vedere mai, come le ronde contro i campi Rom.

Rimane per noi dunque l’esortazione della Parola di Dio: Ascolta, Israele … Esci da te stesso, esci dal tuo egoismo, apriti all’altro e non chiuderti di fronte alla esigente vocazione che il Signore ti ha rivolto.

- Ascolta il mandato di predicazione che il tuo Signore ti ha dato,
- Ascolta il mandato di servizio che il Signore ti rivolge,
- Ascolta il grido di dolore degli immigrati in balia delle onde nel canale di Sicilia
- Ascolta il grido muto di Eluana Englaro che chiede di essere lasciata andare via, senza che attorno al suo povero corpo si accenda una disputa cinica che risponde più ad istanze di potere che di pietà.
- Ascolta, Israele…
past. Paolo Ribet - culto di apertura del Sinodo 2008

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