La crisi
Scrive Romano Màdera: "Il punto non è che il re sia nudo, è che il re non c'è: il comandante è nessuno. Nessuno è il grande timoniere e la tempesta non cala"Risponde Umberto Galimberti
Qualche mese fa si ascoltavano i rappresentanti del governo che affermavano la certezza della fine della crisi, spiegavano che il peggio era passato ed era alle nostre spalle. Chi avvertiva che era presto per definire superata la crisi veniva insultato e deriso con epiteti poco simpatici come catastrofista e pessimista. Oggi si ritorna a parlare di crisi, le borse crollano e il debito pubblico pesa come un macigno sui fragili governi. I governi europei si preoccupano soltanto dei bilanci dimostrando di non aver compreso la natura della crisi che da finanziaria si sta trasformando in crisi dell'economia reale (crollo della produzione, disoccupazione, calo dei consumi), e ora in crisi sociale con il conflitto civile. Se non si penserà anche a porre un argine a queste mutazioni, non servirà a niente avere pareggiato i bilanci dei vari paesi, quando avremo una situazione di disordine sociale incontrollabile. Personalmente sono fra quelli che da due anni stanno ripetendo che dalla crisi si uscirà soltanto tramite riforme strutturali e cambiamenti di stili di vita. Ma come tanti che sostengono ciò, vengo considerato un estremista. Non credo che la menzogna potrà alla fine nascondere la verità dei fatti. Cristiano Martorella amenouzume@libero.it In un bellissimo saggio del 1999 che ha per titolo L'animale visionario (Il Saggiatore) il filosofo Romano Màdera avvertiva che bastava prendere in considerazione qualche numeretto del PNUD (Il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo) per rendersi conto che, al di là delle contingenze che l'hanno determinata, una crisi, dalle proporzioni di quella di oggi, era largamente prevedibile. Noi occidentali, infatti, che siamo il 18%, della popolazione mondiale, più o meno 800 milioni di persone, disponiamo dell'83% del reddito mondiale, mentre l'82% della popolazione mondiale, più o meno cinque miliardi di persone, si spartisce il restante 17%. Un sistema così sproporzionato non poteva avere una lunga durata. Ora che il capitalismo, dopo il crollo dell'Unione Sovietica, è diventato globale, la mondializzazione del mercato dei capitali ha portato il colpo decisivo al già tramontante potere degli Stati e alle loro possibilità di influenzare con gli strumenti della politica il corso degli avvenimenti. Ciò significa la fine dell'indipendenza degli Stati nazionali, la cui politica economica diventa pura esecuzione di ricatti finanziari, mascherati da consigli-condizioni per ottenere crediti, a loro volta necessari per restituire debiti al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale, nel loro ruolo di agenzie del capitale transnazionale. Questa situazione non riguarda solo i paesi poveri, riguarda anche noi, se appena prestiamo un po' di attenzione a quelle agenzie specializzate (Moody's, Standard & Poor's) che danno il voto al debito pubblico dei vari Stati, mettendo in riga governi e amministrazioni che si vedono tagliati ulteriori fondi di credito, se a loro volta non tagliano le spese per programmi sociali, se non aumentano le tasse ai cittadini, se non trasformano i debiti delle banche private e delle imprese in debito a garanzia pubblica, incentivando i capitali ad affluire. È evidente che in una condizione del genere la democrazia non può andare oltre le scelte degli esecutori tecnicamente più capaci nell'applicare i comandi del capitale finanziario che si muove a livello transnazionale, per cui quando Marx diceva che "i governi sono comitati d'affari della grande borghesia", sbagliava solo per difetto. Quello che allora era solo un cattivo costume, oggi è un sistema, anzi il sistema. Per cui se nel mondo antico i debitori insolventi finivano schiavi, nel mondo del capitalismo globale interi Stati vengono costretti a lavorare per conto delle grandi finanziarie e della speculazione. Se questi dati e queste considerazioni hanno una loro plausibilità, non sembra remoto lo spettro di una definitiva subordinazione della politica alla finanza, con la conseguenza tragica che lei prospetta, di una pericolosa trasformazione della crisi finanziaria in crisi sociale e conflitto civile.