Né
espulsione né accoglienza
Il
migrante che per decreto deve vivere al gelo in strada
Non
può essere espulso dall’Italia, ma nemmeno più accolto. Ha
problemi psicologici per i traumi subiti nella sua terra d’origine
e per le torture fisiche a cui è stato sottoposto, necessita di
aiuto, ma di fatto è stato “condannato” a dormire al freddo per
strada. E’ un paradosso quello che sta vivendo Malick Cole,
migrante originario del Gambia di 24 anni, che ha fatto di tutto per
non finire al gelo, compreso chiedere al giudice di essere
incarcerato piuttosto che non avere un tetto sotto cui stare. Ma
invano, perché il 29 dicembre il giovane è stato assolto nel
processo per direttissima in cui era stato accusato di resistenza ai
carabinieri: non voleva abbandonare la comunità dopo l’ordine del
prefetto che dispone per lui la revoca delle misure di accoglienza e
per questo, in quell’occasione, aveva anche cercato di buttarsi da
un balcone. La sua storia aveva colpito i magistrati e gli avvocati.
Da allora Malick Cole dorme in piazza D’Armi e ogni giorno si
presenta dall’avvocato Marika Mazzola chiedendo se ci siano novità.
Divora i biscotti, trema per il freddo che si porta dentro. Ma
nessuna struttura può più ospitare Malick dopo che il 30 novembre
il prefetto ha disposto il divieto di accoglierlo. L’ha fatto
perché la comunità in cui si trovava aveva denunciato gli episodi
di tristezza, rabbia e aggressività che il ragazzo aveva
manifestato. Chiedeva i soldi della diaria, chiedeva ogni giorno di
poter lavorare. Poi voleva i suoi documenti. Poi non voleva lasciare
la struttura. “La ragione di questi sentimenti di rabbia sembra
essere la frustrazione connessa alle difficoltà della vita
sperimentate nel contesto di accoglienza” si legge nell’ordine
del prefetto. Un altro paradosso.
Il
giudice ha riconosciuto che Malick faceva più che altro del male
solo a se stesso, ma incuteva paura ed era difficile da gestire.
L’ordine del prefetto dà atto dei problemi psicologici, del
bisogno di assistenza. Una relazione medica del centro Frantz Fanon
evidenzia le sue difficoltà. Ed è una storia terribile quella che
il migrante ha raccontato ai medici, che ha dei riscontri clinici. Il
giovane è finito in carcere la prima volta a 15 anni denunciato dal
padre che l’aveva accusato di aver rubato dei soldi. Ha vissuto per
strada già nel suo paese, poi ha scelto di partire verso l’Europa.
Ma in Libia è stato arrestato e torturato, appeso per le braccia
come dimostrerebbero le lastre che gli sono state fatte in Italia.
Arrivato nel 2016 a Palermo dopo aver affrontato il mare con un
viaggio della speranza, è stato caricato su un pullman e portato a
Rovereto. Ha vissuto in un campo della Croce Rossa, poi è andato a
Trento: dormiva sui treni. “Bevevo per non sentire il freddo. Con
me c’erano due amici, non si sono più risvegliati, per questo io
non voglio più finire al gelo: non voglio morire anche io” ha
raccontato anche in aula. Dopo un breve passaggio a Milano è
arrivato a Torino e si è rifugiato nelle cantine dell’ex Moi; dopo
lo sgombero è andato nella comunità. Ma non era un ospite
tranquillo e per questo gli è arrivata la revoca delle misure di
accoglienza.
“Non
può essere espulso perché a Trento ha fatto domanda come rifugiato:
gli è stata negata ed è in corso l’appello” spiega l’avvocato
che ha provato a contattare diverse strutture, invano. La revoca
disposta dal prefetto, di fatto, gli chiude le porte. La sua
disperazione è accertata, dai medici e dal giudice. Ma è
abbandonato al suo destino.
Sarah
Martinenghi – Repubblica 10 gennaio