Perché la natura ci soffoca
di Erri De Luca
Ho
una personale definizione di natura: è dove non esiste presenza umana, o
è trascurabile e di passaggio. Quando vado in montagna in zone remote,
ecco che mi trovo dentro un pezzo di mondo com’era prima di noi e come
continuerà a essere dopo.
Natura
è spazio totalmente indifferente a noi, in cui percepire la propria
misura minima e intrusa. Non è un campo giochi né area da scampagnata
fuori porta. Incute timore per l’immenso che sovrasta, premessa di
rispetto e di ammirazione.
La
bellezza di natura non è scenografia, è uno stato di provvisorio
equilibrio tra energie colossali, eruzioni, terremoti, uragani, incendi.
Napoli,
mia origine, ha un golfo leggendario per bellezza, opera di cataclismi
che l’hanno determinata. Bellezza di natura è l’intervallo tra
sconvolgimenti. Questa non è una conclusione filosofica, soltanto la mia
percezione fisica. Perciò per me natura è lo spazio della nostra
assenza.Dove esiste insediamento, uso il termine: ambiente. Il latino
ambire significa circondare. Il participio presente ambiens è ciò che
circonda. La specie umana fin dai suoi esordi si è sentita circondata,
stabilendo con il territorio rapporti di forza oscillanti tra difesa e
conquista. Ai giorni nostri è evidente che ambiens non circonda più,
invece ? circondato dall’espansione numerica della specie e dei suoi
mezzi di sfruttamento. L’ambiente sopraffatto si arrende.
Ecco
che un’epidemia di polmoniti interrompe l’intensità dell’attività
umana. I governi stabiliscono restrizioni e rallentamenti. L’effetto
pausa produce segnali di rianimazione dell’ambiente, dai cieli alle
acque. Un intervallo relativamente breve mostra che la minore pressione
produttiva fa riprendere colore alla sbiadita faccia degli elementi.
La micidiale polmonite che soffoca il respiro, sta a specchio dell’espansione umana che soffoca l’ambiente.
L’ammalato chiede aria e aiuto a nome di se stesso e del pianeta intero.
Uno che legge molto riconosce, o crede di riconoscere, simboli e paradigmi negli avvenimenti.
Il
monoteismo istituì il Sabato, che alla lettera non è giorno di festa ma
di cessazione. La divinità prescrisse l’interruzione di ogni specie di
lavoro, compresa la scrittura. E impose limiti alle distanze
percorribili a piedi in quel giorno. Il Sabato, è scritto, non
appartiene all’Adàm: il Sabato appartiene alla terra.
Questa
ingiunzione di lasciarla respirare imponendosi arresto è stata
ignorata. Non credo che la terra si riprenda i suoi Sabati sottratti.
Credo invece che calpestare i Sabati produca le brusche sospensioni
della nostra occupazione di pianeta. Per la terra è una tregua.
Per
la prima volta nel corso della mia vita assisto a questo rovesciamento:
l’economia, l’ossessione della sua crescita, è scalzata dal
piedistallo, non è più misura dei rapporti e autorità suprema.
Improvvisamente la salute pubblica, l’incolumità dei cittadini, diritto
uguale per tutti, è la parola d’ordine unica e imperativa.
Nel
caso Italia l’idolatria dell’economia si è permessa l’arbitrio di
infischiarsene delle conseguenze di attività nocive. Dallo spargimento
di amianto nello scavo della Val di Susa all’intossicazione di Taranto,
la pubblica salute è trattata da variabile secondaria. Le uccisioni per
guasto ambientale sono considerate danni collaterali di attività
legittime e impunite. Sono invece crimini di guerra compiuti in tempo di
pace a danno di popolazioni ridotte a suddite di signorìe.
Ecco
la ribalta improvvisa, l’economia caduta da cavallo e subordinata a
nuova precedenza: la vita pura e semplice. I medici e non gli economisti
sono le autorità massime. È una conversione. Migliora il rapporto tra
cittadini e Stato, i governi si trasformano da garanti del Pil a
difensori strenui della comunità.
Certo
è uno stato di eccezione e non si vede l’ora di arrestare l’epidemia e
tornare al pieno ritmo precedente. Però il Sabato della terra semina
insieme ai lutti uno spiraglio di diversa vita per i superstiti. Perché
da ora in poi ognuno è uno scampato provvisorio. È un sentimento che mi
avvicina di più a tutti quelli ai quali non posso stringere la mano.
Un’altra
inversione si registra nel caso Italia. Dalla sua unità in poi ci sono
stati flussi migratori dal meridione verso l’arco alpino. Ora rientrano
in massa a flusso inverso, fino al recente blocco dei ritorni. Lo
studioso dell’ambiente Guido Viale notava che l’epicentro dei contagi in
Cina, Germania, Italia, coincide con le aree a maggiore inquinamento
atmosferico, indizio di una predisposizione all’aggressione delle vie
respiratorie.
Il
meridione percepito come terra rifugio, asilo sanitario, riaccoglie i
suoi figli. Non vale qui la parabola del figliol prodigo. Non partirono
per scialacquare, ma per necessità. Non tornano pentiti, ma sgomenti di
affrontare isolamenti lontano dagli affetti, bisognosi di ascoltare un
poco di dialetto, madrelingua affettuosa.
Chissà che non migliori, con l’umore, il sistema immunitario.
Cambiata
la graduatoria delle priorità, ora conta l’urgenza di salvarsi e anche
di scontare l’imprecisata quarantena in luoghi familiari. Il meridione,
percepito più salubre, è di certo ambiente più cordiale per placare
l’ansia di uno stato di assedio.
«Basta che ce sta ‘o sole, basta che ce sta ‘o mare...». Non è una terapia riconosciuta, però fa bene all’anima.
La Repubblica 17/03