Schiaffo ai genitori gay Restano padre e madre sulla carta d’identità
LORENZO DE CICCO
La Repubblica 27/12
ROMA — Regalo di Natale per le famiglie Lgbt+. Regalo amaro: sulla carta d’identità resta l’abbinata madre/ padre. Firmato: il governo.
Dopo la
sentenza del tribunale di Roma, che un mese fa ha riabilitato la vecchia
dicitura, genitore 1/genitore 2, l’esecutivo ingrana la retromarcia. E
fa un po’ finta di niente. La decisione è maturata sull’asse Viminale-
ministero per la Famiglia. Obiettivo: lasciare tutto com’era prima del
verdetto dei giudici.
Com’era stato messo nero su bianco, cioè, nel
decreto Salvini del 2019.
Lo conferma a Repubblica la ministra Eugenia
Roccella, titolare del dicastero della Famiglia e delle Pari opportunità
nel governo Meloni. «Si è fatto tanto rumore per quella decisione —
dice Roccella — ma si tratta di una sentenza individuale, dunque vale
per la singola coppia che ha fatto ricorso ».
Per tutte le altre no.
Sulla carta d’identità, aggiunge la ministra, «rimarrà scritto madre e
padre». E le coppie formate da due mamme o due papà? «Possono sempre
fare ricorso». Con tutti i rischi annessi e connessi. Per esempio:
l’esito imprevedibile della contesa legale, perché ogni giudice può
decidere in un senso o all’opposto. E soprattutto con la certezza di
spese tutt’altro che modeste. Per questo genere di pratiche tocca
sborsare dai 6mila ai 12mila euro, spiega Alexander Schuster, avvocato
in decine di cause per conto di famiglie Lgbt. «La strategia di Roccella
— sostiene Schuster — è intelligente, perché in questo modo tre quarti
delle coppie omogenitoriali lasceranno perdere».
Certo, c’è sempre qualche trucco per dribblare l’imposizione del Viminale senza passare dall’avvocato. Ma bisogna trovare l’ufficiale di anagrafe compiacente. «Il decreto Salvini del 2019 — racconta Schuster — è valido per le carte d’identità elettroniche.
Certo, c’è sempre qualche trucco per dribblare l’imposizione del Viminale senza passare dall’avvocato. Ma bisogna trovare l’ufficiale di anagrafe compiacente. «Il decreto Salvini del 2019 — racconta Schuster — è valido per le carte d’identità elettroniche.
Non per quelle cartacee, vecchio modello, che
ancora oggi possono essere rilasciate in casi particolari, per esempio
se c’è l’urgenza di un viaggio imminente».
Ma appunto è fondamentale
incappare nell’impiegato comunale disposto a chiudere un occhio. «Un
funzionario che preferisce accondiscendere a un falso minore, un’urgenza
inventata, piuttosto che certificarne uno decisamente più grave: cioè
iscrivere al ruolo di padre una donna ».
Perché con la forzatura del
2019 anche questo succede: mamme che diventano papà e papà che passano
da mamme.
Proprio per ovviare a paradossi di questo tipo il giudice,
dando ragione a una coppia di Roma, ha condannato la «rappresentazione
alterata, e perciò falsa, della realtà» consentita dal decreto,
paventando «gli estremi materiali del reato di falso ideologico commesso
dal pubblico ufficiale in atto pubblico». Roba da codice penale.
Al momento della sentenza, il 16 novembre scorso, il governo storse il naso. Palazzo Chigi parlò di «evidenti problemi di esecuzione». Salvini naturalmente s’indignò a mezzo social: «Illegali o discriminanti le parole “mamma” e “papà”? Le parole più belle del mondo? Non ho parole, ma davvero». Ora arriva la conferma. Il governo non cambierà i moduli. Non cambierà i software per stampare la carta d’identità. L’unica via per arrivare a un verdetto che valga per tutti è una class action — «col rischio di sparare contro i mulini a vento, perché le class action nel nostro Paese sono ancora terreno vergine», conclude Schuster — oppure una segnalazione alla Commissione Ue per violazione delle norme sulla privacy, che tutelano il diritto al trattamento corretto dei propri dati, o per l’irregolarità dei documenti di viaggio. Ma la strada è appunto tortuosa. L’attesa del verdetto rischia di essere lunghissima. Nel frattempo, chi ha tempo e denaro per un ricorso, può provarci. Anche se perfino spuntarla davanti al magistrato rischia di rivelarsi inutile. «Non è cambiato nulla — racconta Sonia, una delle due mamme che hanno vinto il ricorso a novembre — L’anagrafe del Comune ancora non ci ha consegnato la carta d’identità, perché il Viminale non ha cambiato i moduli. Siamo sconfortate, ci sembra di essere tornate alla casella di partenza».
Al momento della sentenza, il 16 novembre scorso, il governo storse il naso. Palazzo Chigi parlò di «evidenti problemi di esecuzione». Salvini naturalmente s’indignò a mezzo social: «Illegali o discriminanti le parole “mamma” e “papà”? Le parole più belle del mondo? Non ho parole, ma davvero». Ora arriva la conferma. Il governo non cambierà i moduli. Non cambierà i software per stampare la carta d’identità. L’unica via per arrivare a un verdetto che valga per tutti è una class action — «col rischio di sparare contro i mulini a vento, perché le class action nel nostro Paese sono ancora terreno vergine», conclude Schuster — oppure una segnalazione alla Commissione Ue per violazione delle norme sulla privacy, che tutelano il diritto al trattamento corretto dei propri dati, o per l’irregolarità dei documenti di viaggio. Ma la strada è appunto tortuosa. L’attesa del verdetto rischia di essere lunghissima. Nel frattempo, chi ha tempo e denaro per un ricorso, può provarci. Anche se perfino spuntarla davanti al magistrato rischia di rivelarsi inutile. «Non è cambiato nulla — racconta Sonia, una delle due mamme che hanno vinto il ricorso a novembre — L’anagrafe del Comune ancora non ci ha consegnato la carta d’identità, perché il Viminale non ha cambiato i moduli. Siamo sconfortate, ci sembra di essere tornate alla casella di partenza».