Provate a immaginare di essere rinchiusi in una galera sovraffollata
10-03-2020 - di: Ornella Favero
Provate
a immaginare oggi, con questo bombardamento di notizie su un virus che
fa paura a noi tutti, di essere rinchiusi in una galera sovraffollata,
sentir parlare della necessità di stare almeno a un metro di distanza
l’uno dall’altro e sapere che il tuo vicino di branda sta a pochi
centimetri da te, in una pericolosa promiscuità dettata dagli spazi
ristretti; sentir dire che è un virus che può diventare mortale se
attacca persone indebolite dalla malattia e vedere che le persone che
hai intorno sono spesso debilitate da un passato di tossicodipendenza e
che altre e più gravi patologie coesistono con la detenzione; avere una
vita povera di relazioni e vedere dapprima “sparire” tutti i volontari,
di colpo non più autorizzati a entrare in carcere, e poi improvvisamente
anche i famigliari. Veder sparire le già poche possibilità di
formazione e istruzione e dover riempire le giornate con il nulla e la
paura. C’è di che perdere davvero la testa.
Se
c’è un valore di cui il Volontariato è portatore sempre è quello della
non violenza, quindi niente si può giustificare di quello che sta
accadendo in questi giorni nelle carceri, ma abbiamo anche il dovere di
cercare di capire la disperazione che c’è dietro certi gesti: sette
detenuti morti a Modena, forse per aver ingerito del metadone, sono
comunque l’espressione della sofferenza e della solitudine che
caratterizzano più che mai oggi la vita detentiva.
Quando
con una qualità della vita già così bassa interviene una catastrofe
come quella del coronavirus, pensare che persone che la violenza l’hanno
sperimentata spesso nel loro passato possano agire con ragionevolezza è
solo un’illusione. Se, come chiediamo da tempo, le persone detenute
potessero avere dei rappresentanti eletti, sarebbe almeno un po’ più
facile cercare di responsabilizzarli in una situazione così grave.
Imparare
a rifiutare qualsiasi violenza è un aspetto fondamentale della
rieducazione, su cui noi volontari ci battiamo senza sosta con le
persone detenute, ma sono percorsi lunghi e complessi, che comportano
un’adeguata formazione/informazione e un confronto costante. Ed è per
questo che capiamo anche quanto drammaticamente difficile sia per la
Polizia penitenziaria affrontare conflitti violenti come quelli di
questi giorni, e far fronte a questa emergenza spesso senza adeguate e
dettagliate informazioni, e senza i prescritti dispositivi di protezione
individuali. E quanto importante sia che quello che sta succedendo in
questa tragica emergenza non interrompa, ma anzi sviluppi e rafforzi il
dialogo che deve esserci sulla finalità rieducativa della pena.
Ecco
quello che noi volontari, parte di quella società civile che accompagna
le persone detenute nei percorsi di reinserimento, proponiamo:
–
istituire presso ogni Istituto di pena una specie di Unità di crisi che
coinvolga rappresentanti di tutti gli operatori, compreso quel
volontariato che fa così comodo nella quotidianità della vita
carceraria, ma che è più facilmente “sacrificabile” nei momenti di vera
emergenza, quando il suo apporto, la sua capacità di mediazione e di
comunicazione sarebbero fondamentali;
–
dare ordine ed efficacia alle misure, relative alla tutela degli
affetti, uscendo dalla genericità di formule come quella adottata in
questi giorni, che dice che «i colloqui visivi si svolgono in modalità
telefonica o video, anche in deroga alla durata attualmente prevista
dalle disposizioni vigenti». Le telefonate dovrebbero essere
liberalizzate come avviene in molti Paesi europei, e però programmate
per permettere a tutti di chiamare casa ogni giorno; andrebbe istituito
un fondo per chi non ha soldi nel conto corrente e studiata la
possibilità di far usare ai detenuti stranieri le tessere prepagate. C’è
poi una circolare del DAP che invita a istituire i colloqui via Skype
in tutti gli istituti; va monitorata la situazione per capire quali
carceri abbiano già applicato la circolare e vanno organizzate più
postazioni in ogni istituto, allargando anche ai detenuti di Alta
Sicurezza la possibilità dei colloqui via Skype. Va inoltre ridato al
Volontariato il ruolo di sostenere e aiutare le persone detenute a
restare in contatto con le loro famiglie, in modo particolare in un
momento così delicato;
–
ci sono in carcere 8.682 persone detenute con meno di un anno di
residuo pena, 8.146 persone detenute con da uno a due anni di residuo
pena, persone quindi destinate ad uscire presto. Sono persone che non
devono intasare le carceri e rendere ancora più difficile affrontare
l’emergenza sovraffollamento e quella coronavirus. Quello che si può
fare subito è creare le condizioni perché vengano concesse più misure
alternative: quindi, dove è possibile, l’affidamento in prova ai servizi
sociali, che è la misura più compiutamente efficace per il
reinserimento delle persone detenute nella società e anche per la
sicurezza della società stessa, e poi la detenzione domiciliare negli
ultimi due anni della pena. A partire da tutte le persone anziane e dai
malati, che devono essere al più presto rimandati a casa. E se non hanno
dove andare, crediamo che la rete delle Comunità di accoglienza possa
dare una mano a trovar loro una sistemazione dignitosa. Questo
ridurrebbe sensibilmente il numero delle persone in carcere e
contribuirebbe ad alleggerire le tensioni e ad affrontare più
efficacemente l’emergenza sanitaria.
In
un Paese convulso, irrazionale, spaventato come il nostro crea scandalo
e smarrimento dire che una soluzione come due anni di indulto e
un’amnistia per reati di non particolare gravità sarebbe un modo serio
per riportare le carceri alla decenza e alleggerire i tribunali, già
sfiancati dal virus. Però dobbiamo cominciare a parlarne, con la
consapevolezza che è pericoloso oggi creare inutili illusioni tra le
persone detenute e i loro famigliari.
Facciamo
in modo che sia garantito il diritto alla salute anche a chi ha
sbagliato e sta scontando una pena, è il modo giusto per sentirsi parte
di una comunità e affrontare con meno paura il futuro.
Volerelaluna 27/3