domenica 16 luglio 2023

L'IRAN : IL PAESE OSTENTA NORMALITA'

 

«L’IRAN NON TORNERÀ COME PRIMA»

Voci e racconti di uno scontro generazionale spiazzante. Il Paese ostenta normalità, i caffè sono pieni, ora mostre ed eventi culturali sospesi in autunno si svolgono. Ma sotto -come testimoniano scrittrici, cineasti, sociologi e attivisti incontrati nelle scorse settimane- resiste un clima di battaglia e di sfida. Nonostante la repressione e quasi 500 morti.

Reportage di MARINA FORTI per «Altreconomia» (*). A seguire una noticina piccina-picciò della “bottega”

 

Uno stand alla Fiera del libro di Teheran © Marina Forti

L’Iran “non tornerà come prima”, dice S. Ettemad, nota sociologa e femminista: “La società iraniana è cambiata, e certe trasformazioni sono irreversibili”. Siamo a un caffè di Darband, vecchio villaggio sulle pendici delle montagne che chiudono Tehran a Nord, con ristorantini sulle sponde di un torrente dove gli abitanti della capitale vanno a prendere il fresco. Nella folla del fine settimana molte donne hanno la testa scoperta, ma nessuno sembra farci caso.

Ettemad (il nome è fittizio: la nota sociologa, come molti, preferisce restare anonima) si riferisce alle proteste scoppiate in Iran alla fine di settembre 2022, dopo la morte della giovane Mahsa Amini in custodia della cosiddetta polizia morale. 

Un movimento di protesta che ha coinvolto città grandi e piccole in tutto il Paese, è entrato nelle scuole e nelle università; ha invaso le strade dapprima con cortei massicci, poi con manifestazioni più localizzate, assembramenti di giovani che urlano slogan e poi si dissolvono, scritte sui muri. Ognuno di questi gesti è diventato virale, clip diffuse sui social media ne hanno moltiplicato l’effetto. 

Tra dicembre e gennaio quel movimento è declinato: anche perché la repressione è stata dura, migliaia di arresti, circa 500 morti per le strade, una raffica di condanne a morte.

 Due esecuzioni in dicembre, altre due in gennaio hanno raggelato gli iraniani. Ancora, il 19 maggio sono stati impiccati tre giovani uomini ritenuti responsabili dell’uccisione di un agente. Quella sera in alcune zone della capitale iraniana sono risuonati slogan urlati dalle finestre in segno di dissenso. 

Alla fine di maggio sono cominciati due separati processi alle giornaliste che in settembre avevano diffuso la notizia della sorte di Mahsa Amini e delle prime proteste: sono accusate di “collusione con potenze ostili”, reato che può comportare fino alla pena di morte.

Oggi l’Iran ostenta normalità. I caffè sono pieni. Mostre ed eventi culturali sospesi in autunno si svolgono ora. La Fiera del libro di Tehran è stata molto pubblicizzata (disertata però dagli editori indipendenti). Le vie commerciali più popolari, vicino al bazar, sono tornate i luoghi affollati di sempre e così anche i più moderni centri commerciali: Tehran conta oltre 450 shopping mall, ciascuno con negozi, food court, sale di cinema, supermercato. Nella nuova normalità ci sono anche le teste femminili scoperte: frequenti nelle zone urbane più “moderne” e benestanti ma visibili anche in quelle più popolari e tradizionaliste; nella capitale e nelle città di provincia. Donne giovani e non; nei locali pubblici, per strada o in metropolitana: capelli scoperti accanto a foulard portati con noncuranza o hijab più rigorosi. Le famigerate pattuglie dei guardiani della morale sembrano scomparse dal panorama urbano.

Una veduta di Tehran © Sajad Nori – Unsplash

Le norme sull’abbigliamento islamico restano in vigore, certo. In maggio è stato annunciato un sistema di sanzioni pecuniarie per le donne fotografate a testa scoperta dalle telecamere di controllo del traffico, e la multa raddoppia alla seconda contravvenzione. 

Sul sito di un’agenzia stampa molto conservatrice la notizia è stata commentata dai lettori con una raffica di “che vi importa del velo”, “abbiamo problemi più gravi”.

Già: per milioni di iraniani, il problema più grave oggi è sopravvivere. L’inflazione ha raggiunto il 47,7% su base annua (in marzo, alla fine dell’anno persiano), e nella percezione comune è anche più alta. Il 33% degli iraniani è sotto la soglia di povertà, secondo dati ufficiali: il picco più alto da oltre un decennio. Lavoratori, piccola borghesia, impiegati pubblici faticano a fare la spesa, i generi essenziali continuano a rincarare. 

Ma parlare di prezzi e inflazione sembra un atto sovversivo: in marzo un quotidiano vicino all’opposizione riformista è stato sanzionato dopo aver scritto che “la carne è scomparsa dalla dieta dei lavoratori e delle classi medie”. L’istituto di statistica ha smesso di pubblicare dati dettagliati. Molti analisti sono convinti che la prossima esplosione sociale sarà suscitata proprio dalle ristrettezze materiali. La stampa governativa però tuona sul velo. 

Dietro l’apparente normalità è come se l’intero Paese trattenesse il respiro, in attesa di cambiamenti inevitabili. In un bel caffè nel centro di Tehran i dirigenti di una casa editrice indipendente elencano le difficoltà dell’editoria iraniana: i costi della stampa divenuti proibitivi, la spada di Damocle della censura. Preferiscono non essere citati per nome, come la sociologa: la pressione resta forte.

Parlano anche della sfida di conquistare il pubblico. Negli ultimi decenni in Iran è emersa una nuova generazione di scrittrici e scrittori molto amati dal pubblico; alcuni sono ormai tradotti e conosciuti anche in Italia e in altri Paesi europei. Ma in tempi di crisi, “i libri sono la prima spesa che viene tagliata”, lamentano gli editori.

Anche conquistare lettori giovani e giovanissimi resta una sfida: “Sono sempre interessati a sapere che cosa esce altrove, e grazie al web sono molto aggiornati. Prediligono fantasy, fantascienza, avventure. Ma come i loro coetanei di tutto il mondo cercano una lettura rapida, testi brevi, addirittura da leggere sul telefonino. Apprezzano molto anche le graphic novel, che però leggono soprattutto online perché la stampa costa troppo”. Da un paio d’anni gli editori sono restii ad avviare progetti impegnativi. “Inutile lanciare iniziative per farsele bocciare dalla censura, meglio aspettare”, ripetono.

Lo stesso vale per il cinema indipendente, le produzioni teatrali, la musica. Non stupisce: la cultura è sempre stata terreno di scontro tra le correnti più propense alle aperture culturali e quelle più conservatrici. Oggi i più oltranzisti, che da sempre controllano magistratura e televisioni di Stato, dominano anche Parlamento e governo. La produzione culturale indipendente attende tempi migliori.

Non che sia tutto fermo: da anni, ormai, libri che non ottengono l’imprimatur approdano sul web, cercando modi complicati per raccogliere il contributo finanziario dei lettori. Un giovane autore di teatro parla di testi che non passano la censura e vengono pubblicati online, o di pièce rappresentate in luoghi privati, in circuiti paralleli.

Il 21 giugno numerosi cineasti hanno firmato una lettera aperta contro la decisione di mettere le piattaforme di intrattenimento sotto il controllo della tv di stato. Denunciano inoltre che a un numero crescente di artisti viene vietato di lavorare. Molti -cineasti, artisti e anche scrittrici e scrittori- vengono convocati per lunghi e ripetuti interrogatori, magari dopo aver fatto commenti pubblici a favore delle proteste. Di solito sono rilasciati senza accuse ma l’effetto intimidatorio è evidente: “Vogliono spingerci all’autocensura”, commenta una scrittrice. 

A qualcuno viene impedito di viaggiare all’estero. L’ultimo caso è quello di Fatemeh Motamed-Aria, notissima attrice che all’inizio di giugno era attesa con una pièce teatrale al festival Wiener Festwochen, in Austria: all’aeroporto le è stato notificato che il suo passaporto era sospeso. In autunno la foto di Motamed-Aria era comparsa in decine di cartelloni pubblicitari del governo, con quelle di altre donne famose, maldestro tentativo di riportare la calma per le strade. Lei ha denunciato l’operazione di propaganda: non usate la mia immagine, ha detto. In un video circolato sui social media alla fine di settembre, in lacrime, si scagliava contro un governo “che uccide le nostre figlie per le strade”. 

© omid roshan – Unsplash

“L’equivoco è stato chiamarla rivoluzione”, dice Babak Karimi, attore ben noto al pubblico iraniano e internazionale (ad esempio in film come “Una separazione” di Ashgar Farhadi), che incontro nel centro di Tehran, in uno dei caffè più frequentati da artisti e intellettuali. Anche lui si riferisce alle proteste dello scorso autunno. 

Parla di una rivolta generazionale: “Un po’ come il Sessantotto europeo, qui stiamo assistendo a una rivolta sociale e culturale. Una generazione di giovani si sente stretta nelle norme che gli sono state cucite addosso, e si ribella”.

In effetti c’è un aspetto sessantottino nelle immagini circolate mesi fa, le liceali che lanciano in aria gli hijab e urlano contro i presidi, gli studenti che cantano “el pueblo unido” nei campus universitari, gli striscioni appesi ai cavalcavia. O l’ironia delle vignette, i commenti irriverenti che imperversano sui social media: una rivolta anti-autoritaria. Karimi ride: “A Tehran non ci si annoia”. “Una grande performance collettiva -osserva Ali Shams, regista e autore teatrale-: Hanno lottato contro il governo con i propri corpi, in una continua ricerca di gesti coreografici giocati sui colori, i foulard sventolati, i canti. Una performance dissacrante”. È vero: “Per le strade questa volta c’erano i giovani e giovanissimi”, osserva Ettemad mentre scendiamo da Darband attraverso il bel parco pubblico di Sa’d Abad (era una delle residenze dei Palhavi, la dinastia reale spodestata dalla rivoluzione del 1979). 

L’Iran ha visto altre ondate di protesta nell’ultimo decennio. Suscitate dai rincari del carburante o dei generi alimentari, o dagli stipendi non pagati da aziende in crisi, hanno coinvolto soprattutto lavoratori e classi medie impoverite. Sono state represse, a volte con grande brutalità: nell’inverno del 2019 si parlò di oltre 1.500 morti per le strade e la risposta violenta dello stato suscitò critiche infocate fin nel parlamento nazionale. Questa volta a scatenare la rabbia è una questione di libertà e di rispetto; l’insofferenza verso un potere normativo, arbitrario, violento (“finalmente anche gli uomini hanno capito che l’hijab non riguarda solo le donne”, commenta la sociologa).

Una rivolta generazionale, dunque? Ettemad ne è convinta. La generazione Zoom: sono i nati tra la fine degli anni 90 e il primo decennio del secolo, adolescenti o poco più che ventenni. Cresciuti con internet e i social media, hanno accesso agli stessi consumi culturali dei loro coetanei in tutto il mondo. Sono considerati più disincantati delle generazioni precedenti; indifferenti alla politica, in apparenza senza ideali, “non si fanno remore nel mettere in questione l’autorità”, osserva la nostra interlocutrice. Del resto, sono figli di trasformazioni profonde avvenute nella società iraniana negli ultimi decenni, dove nascono meno figli, i matrimoni si diradano, i divorzi aumentano, si diffondono i “matrimoni bianchi”, convivenze tra partner non sposati.

La rivolta dei giovanissimi spiazza lo Stato. “Non hanno più linguaggi condivisi con le istituzioni”, osservava qualche anno fa un centro studi accademico vicino al governo di allora. In un’ampia ricerca sosteneva che oltre agli evidenti motivi di insoddisfazione politica, economica e sociale, alla base delle ricorrenti proteste popolari c’è ormai un profondo gap generazionale; invitava perciò ad ascoltare i giovani. L’attuale governo ha fatto il contrario. Ha spinto sulle brigate morali, sulle campagne per la castità e il velo, come se non sapesse più in che Paese vive.