mercoledì 25 settembre 2024

 

UNA FEDE MOLTI LINGUAGGI

 

Una sfida inevitabile e feconda

Molti cristiani di fronte alla Bibbia, alle celebrazioni liturgiche, ai sacramenti e ai vari dogmi non provano disagio. Pensano che gli “elementi religiosi” della loro fede siano veri e rassicuranti proprio perché non sono soggetti al cambiamento. Quei gesti e quelle parole vengono da una tradizione che li ha resi sacri ed intangibili. Essi sono garantiti da un’autorità, anch’essa sacra, che al più può proporre degli aggiornamenti. L’importante per questi fratelli e sorelle è quella stabilità, quella continuità nella tradizione che non esponga la fede al rischio delle pericolose novità.

 Il catechismo

Il catechismo con le sue risposte dogmatiche e morali è come un albero gigantesco che sopporta ogni vento. ll bene e il male trovano in esso territori e confini ben definiti; la verità e l’errore sono anzi dogmatizzati. Tutto è preso in considerazione e valutato in base ad una autorità divinamente voluta e guidata.

In questo contesto, in cui le risposte anticipano e sopravanzano le domande, i dubbi e gli interrogativi affioranti vengono facilmente tacitati con il ricorso alla categoria del mistero o con una citazione biblica.

In verità questo cristianesimo-cattolicesimo è costruito e consolidato, anche recentemente confermato, da solenni documenti magisteriali.

Paolo VI il 5 giugno 1967 disse: “Le formule dogmatiche sono così strettamente legate al loro contenuto che qualsiasi alterazione nasconde o provoca un’alterazione nel contenuto stesso”. ll 4 dicembre 1968, come se non bastasse, aggiunse: “Non si possono abbandonare le proprie formule in cui la dottrina è stata ponderata e autorevolmente definita. Su questo aspetto il magistero della Chiesa non transige”.

Già nel 1965 aveva affermato: “Le formule a cui ricorre la Chiesa per proporre i dogmi della fede esprimono concetti che non sono legati ad una determinata forma di cultura umana e neppure ad una determinata fase del progresso scientifico e neppure ad una scuola teologica: esse manifestano invece un’esperienza universale e necessaria. Per questo si dimostrano adatte a tutti gli uomini di tutti i tempi” (in “Misterium Fidei”, AAS 57 - 1965, pag. 758).

Se il Concilio Vaticano II aveva aperto una porta, essa è subito stata richiusa. Giovanni XXIII nella allocuzione di apertura del Concilio aveva distinto tra il “deposito della fede” e la maniera di esprimerla.

Così pure la “Gaudium et spes” al n. 62.

La defenestrazione dei teologi che Paolo VI avviò e che gli altri papi proseguirono, con uno zelo degno di miglior causa, ha alle spalle una “filosofia ontologica” (I. M. Vigil) che paralizza il pensiero religioso, impedendogli di crescere, di evolvere e di adattarsi al cambiamento della società. “É importante riconoscere che l’epistemologia che ha dominato il linguaggio religioso e quello della teologia tradizionale ha mantenuto prigioniero ogni conoscenza e ogni pensiero religioso all’interno di un carcere dal quale non riesce ad uscire” (Vigil, “A cinquant’anni dal Concilio Vaticano II”, Pazzini Editori, pag. 72).

(continua domani)