Il tesoro che custodiamo nei nostri fragilissimi vasi di coccio
L’intervista alla moderatora della Tavola valdese
Alessandra Trotta per presentare il Sinodo delle chiese valdesi e metodiste di
fine agosto
Nell’approssimarsi del Sinodo delle chiese
valdesi e metodiste (Torre Pellice, 25-30 agosto), non si può fare a meno di
avere come primo riferimento l’anniversario Valdo 850. A colloquio con la
diacona Alessandra Trotta, moderatora della Tavola valdese, partiamo proprio da
qui: che cosa è più affascinante: raccontare all’Italia la storia valdese o
riscoprirla per noi?
«Abbiamo sempre pensato alla storia valdese come
a un pezzo della storia d’Europa e d’Italia, con particolare riferimento al
lungo cammino, costellato di tragedie e di tappe luminose, per l’affermazione
dei diritti umani, dei principi di libertà e del pluralismo democratico. Credo
davvero che uno dei modi migliori per vivere questo anno speciale sia fare
scoprire e riscoprire ogni giorno questo intreccio, non in astratto ma in
pratiche quotidiane di espressione della fede e di vita comunitaria in cui possa
risuonare, in modo credibile ed efficace per l’oggi, l’annuncio sempre
scandaloso della buona notizia dell’amore di Dio di fronte alle fatiche del
vivere, alla complessità del mondo, al risentimento degli esclusi, all’orrore
delle guerre, alla crescita delle diseguaglianze. E mi sembra di poter dire che
le nostre chiese si stanno impegnando a interpretare questo compito con tutti i
diversi accenti che la varietà dei contesti locali richiede, senza esaltazioni,
ma con serietà, coraggio e creatività».
– L’anno prossimo ricorderemo i 50 anni del Patto
d’integrazione: l’unione con le chiese metodiste ha portato all’introduzione
dei Circuiti e di un modo di lavorare innovativo, che, insieme ai Distretti, è
sotto esame da tempo; è ancora sostenibile una Chiesa con diverse strutture
intermedie, in una fase di calo delle presenze? O forse questo sistema non
abbiamo ancora imparato a utilizzarlo bene?
«Proprio in questi anni, in cui affrontiamo la
riduzione del numero di pastori e pastore da impegnare nel servizio alle
chiese, la struttura circuitale – funzionale a una visione ampia della missione
della chiesa in un territorio, che incoraggia la collaborazione fra chiese
vicine e ministeri diversificati e la messa in comune di risorse e progetti –
mostra delle potenzialità in gran parte ancora inattuate, che vanno invece
valorizzate e supportate, anche con degli investimenti adeguati in termini di
formazione. Le strutture che chiamiamo “intermedie” sono, d’altra parte, lo
strumento con cui la chiesa prova a riflettere e ad agire con un movimento sano
dal basso verso l’alto, in un quadro di partecipazione quanto più possibile
allargata ai processi decisionali, che è ciò di cui maggiormente si avverte la
mancanza anche nella società civile. Queste strutture pesano se si perde la
capacità di farle vivere come spazi di reale ascolto, circolazione di idee,
confronto. Da anni ci poniamo giustamente l’interrogativo della sostenibilità
di un’organizzazione pensata per una chiesa che negli anni si è indubbiamente
ridimensionata, ma che è anche mutata in modo significativo nella sua
composizione, diventando per tanti versi più complessa. Dovremo essere capaci
di innovare, anche snellendo, ma senza togliere l’ossigeno degli spazi per una
partecipazione reale e inclusiva».
– Di fronte ai drammi dell’attualità è
importante, per una piccola chiesa come la nostra, il legame con le grandi
famiglie internazionali: con che spirito ci dibattiamo tra il dover “pensare in
grande” e un giusto richiamo alla concretezza?
«Per una chiesa piccola allenare la capacità di
pensare in grande è una necessità, che non è di ostacolo alla concretezza, anzi
è garanzia di un’azione veramente concreta, che cioè sa farsi carico con
intelligenza e consapevolezza della realtà in cui l’Evangelo incoraggia a
piantare semi di contraddizione e trasformazione. Effettivamente dalla
partecipazione alle varie reti ecumeniche internazionali in cui le nostre
piccole chiese sono impegnate ad offrire un contributo attivo (in genere
riconosciuto e apprezzato), riceviamo l’alimento prezioso di uno sguardo che va
oltre i confini di un contesto nazionale limitato, che rischia anche di
diventare asfittico».
– Guerre, violenze, crisi individuali e baby
gang: la società richiede solo interventi nelle difficoltà concrete e quindi
nel servizio, o c’è ancora sete di una parola che provenga da un Altrove? Come
possiamo far sì che chi incontriamo espliciti una sua eventuale richiesta?
«L’espulsione dall’orizzonte di vita di intere
generazioni del “totalmente Altro” (nel senso pregnante in cui Karl Barth si
riferisce a Dio) e di una pratica comunitaria significativa, nell’illusoria
pretesa di una libertà senza limiti e confini, ha lasciato l’essere umano in un
deserto di solitudini angosciose, prigioniero di sé stesso e di una vita in cui
non si crede in nulla e nulla sembra avere senso. In questa condizione il pane
di vita che salva dal non-senso non è certamente solo quello materiale, come
Gesù ben insegna. Ma penso che non si debba fare nessuno sforzo per
intercettare l’interezza delle domande di senso di chi abita intorno a noi,
basta avere il coraggio, la pazienza, l’umiltà di vedere e ascoltare, con la
consapevolezza del tesoro che custodiamo nei nostri fragilissimi vasi di
coccio».
– Due candidati al ministero pastorale di
provenienza diversa dal nostro paese: che segnale è per noi?
«È uno dei frutti più belli della realtà sempre
più interculturale che le nostre chiese vivono ormai da decenni, nella quale
abbiamo investito e continuiamo a investire non poche energie spirituali e
materiali, nella convinzione di rispondere anche così, nel modo più coerente e
profetico, alla vocazione a essere chiesa di Gesù Cristo oggi. Giovani figli e
figlie di percorsi spesso faticosi di immigrazione che, avendo vissuto in prima
persona l’esperienza di un’identità arricchita da appartenenze plurime, possono
svolgere un ruolo naturale di ponti di comprensione, dialogo, convivenza fra
culture, tradizioni, storie diverse, capaci di alimentare, pur in mezzo a
tensioni e incertezze, la speranza nel mondo nuovo che l’Evangelo ci fa
sognare».
Alberto Corsani (da “RIFORMA”
del 2/8/24)